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Forme, modi e confini.


Quando era piccola, mia sorella era un maschiaccio.
L'aggettivo è di mamma, io lo avrei usato al femminile, una maschiaccia, ma allora le regole grammaticali in casa le faceva ancora mia madre...
Silvia correva, si arrampicava sugli alberi (in campagna da zia Clara), aveva rutto e scorreggia libere.
Questa differenza di attitudine rendeva la mia ritrosia ancora più evidente, pensavo, e rendeva me ancora più femminuccia.
In quell'attività fisica nella quale mia sorella eccelleva e nella quale io annaspavo come Fantozzi sentivo un ammanco di autorità maschile.
La cosa non era importante per me. Temevo potesse esserlo per il mondo di fuori.
Anche se non lo era per quello familiare.
Nessuna aveva messo in discussione il diritto di Silvia di correre e scorreggiare e quello mio di non farlo.
Per cui, a ben vedere, l'essere maschiaccio di mia sorella sanciva anche il mio diritto a non essere maschiaccio.
Detto altrimenti il mio essere borzo trascendeva i generi e i ruoli.
 
Da bambina Silvia aveva un appetito invidiabile e questo la rendeva non dico cicciona ma robusta, anche se la sua verve fisica non ne veniva intaccata, anzi.
Quando stette un paio di settimane in campagna da Zia Clara, ne tornò temprata, irrobustita, abbronzata e ancora più performante.

A detta di zia aveva fatto amicizia con tutti i ragazzini del posto competendo  con loro nella corsa e nell'arrampicata sugli alberi, vincendo anche, spesso.
Zia e mamma ne erano divertite e non pensarono mai che quella verve atletica non si addicesse a mia sorella perché era femmina. Anzi ne parlavano con evidente soddisfazione.

Silvia non guardava in faccia a nessuna, con una libertà che io non ho mai avuto di indole e che sono riuscito ad avere  raramente e sempre lottando contro il mio istinto recalcitrante.

Quando ero in viaggio attraverso la Sardegna, col mio non fidanzato Antonio, arrivammo in macchina a Cagliari, ospiti di un amico di Antonio. Arrivammo tardi, dopo le 22.
Il nostro ospite ci chiese se avevamo cenato e io ebbi la franchezza di dirgli di no che non avevamo cenato, mentre Antonio, timido quanto me, avrebbe desistito. Fu la sua timidezza a darmi forza.
Se lui è timido io posso permettermi di non esserlo. Sapevo che avevamo entrambi fame. 

Mia sorella lo era stata sin da subito. Io avevo dovuto aspettare i miei 30 anni.

Silvia già a sei sette anni si tratteneva a cena a casa di alcuni vicini, una famiglia di giovani cui mamma e nonna avevano prestato soccorso e aiuto, a lei per la bambina appena nata, a lui per trovare un lavoro (conducente Atac).
Silvia era amica con la figlia loro, più piccola di un paio d'anni, e quando Angela, la madre, chiedeva a mia sorella se avesse cenato Silvia diceva sempre di no.
Angela l'aveva vista cenare a casa (le cucine dei nostri appartamenti erano a portata di finestra), nonna ci faceva cenare prima di mamma,  verso le 19.30, ma la ospitava a cena lo stesso, così Silvia mangiava due volte.
All'epoca pensavo fosse questione di appetito, di crescita e metabolismo.
Anche se la verità era lì davanti agli occhi di tutte, noi della ginecrazia non ce ne rendevamo conto.

Almeno io, se mamma e nonna ebbero questo pensiero che sto per dirvi non lo condivisero mai con me.

Credo che Silvia rimanesse a cena perché oltre ad Angela c'era Carlo, l'unica figura maschile  adulta ma non anziana del palazzo, e lei cercava così di sopperire, in qualche modo, alla mancanza di quella figura maschile, paterna che in casa non avevamo.

A differenza mia che quella mancanza l'avevo sempre vissuta come una gran fortuna, Silvia evidentemente sentiva la mancanza di un confronto col maschile,  e la trovava dove e come poteva.

Quando pensiamo a una figura di genere mancante pensiamo sempre ai massimi sistemi invece i rapporti coi generi e i ruoli di genere sono fatti anche dei piccoli gesti del quotidiano, di una prossemica inedita: come ci si siede vicino a un uomo? Si sta a tavola più composte o ci si muove uguali come in presenza di sole donne? Come avviene la conversazione a tavola? La guida lui o lei? E che voce in capitolo si ha?
Mia sorella ha dovuto sempre lottare per conquistarsela un po' di voce in capitolo. Io che invece l'avevo per default non ne volevo sapere di usarla, o meglio, volevo guadagnarmela proprio come se la guadagnava lei.
D'altronde io mio pensiero non era certo allineato all'etica piccolo-borghese e dunque dovevo comunque lottare affinché mi venisse riconosciuta, più che una voce in capitolo, l'autorevolezza su quanto andavo dicendo. 
Come un prete che ha come forza il fatto di non agire la sessualità del suo pene (Ida Magli) io avevo la potenza di non agire la mia autorevolezza maschile sostituendola con la mia verve argomentativa. Alla faccia della femminuccia.

Mia sorella continuava a prendere quello di cui aveva bisogno dove poteva, e di questa sua attitudine spontanea bisogna darle il merito della spontaneità, della franchezza, dell'istintività.

Se nostra madre o nostra nonna fossero state più presenti avrebbero coltivato la propensione alla fisicità di mia sorella, e la mia propensione all'intellettualità.
Invece si limitavano ad assistere agli exploit di Silvia e a me tarpavano le ali.

Mia sorella spontaneamente avvezza ad arrampicarsi sugli alberi (se mi perdonate la facile metafora) ha continuato a farlo anche se non incoraggiata.
Io invece, del tutto privo di fisicità performante, non solo non ne venivo stimolato ma venivo frustrato nella più timida delle sperimentazioni in cui mi producevo, che riceveva un feedback di derisione da parte di mia madre, comodissimo alibi per rinunciare a qualcosa che non mi era congeniale e anzi mi imbarazzava.

Ci fosse stato un uomo chissà se mia sorella sarebbe stata inibita nella sua indole e chissà se io avrei vissuto ancora l'ora di ginnastica con lo stesso terrore con cui me la sono vissuta fino in quinto liceo, oppure sarei stato aiutato a liberarmi e, pur riconoscendo che la fisicità non era nelle mie corde, permettermi di esplorarne almeno forme modi e confini e andare oltre...




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