Teresa
Negli anni settanta partivamo per farci 30 giorni di ferie io, mamma, nonna e mia sorella Silvia. Alberghi convenzionati col dopolavoro ferroviario, biglietti chilometrici gratuiti (mamma lavorava alle Ferrovie dello Stato, servizio Impianti Elettrici), la famiglia Di Silvestro-Paesano non si faceva mancare nulla, nemmeno il lusso di cambiare albergo, appena arrivati a Riccione perchè non piaceva la stanza (o proprio l'albergo?).
Non il lusso del denaro, ma quello dato dall'onestà di dire questo posto non mi piace è diverso da quello che sembrava sul dépliant.
Ogni anno, ad Agosto, si stava via un mese e il momento migliore per me era sempre il rientro a casa, il lampadario tubolare verde dell'ingresso, l'odore caratteristico di casa, che in un mese non avevi respirato abbastanza a lungo da poterlo riconoscere appena riprendevi ad annusarlo, la mia scrivania, la mia cameretta, la libreria da risistemare, cambiando posizione e disposizione di libri, datari, lampada, tagliacarte.
Se mia madre avesse saputo che il momento migliore della vacanza per me era il rientro non avrebbe speso tutti quei soldi per portarmici.
Non so di cosa mamma e nonna riempissero il baule, so solo che ogni anno era talmente pieno che né l'una né l'altra erano in grado di chiuderlo.
Si sforzavano all'inverosimile, nonna facendo una smorfia da Cammela, mamma con un po' di convinzione in meno, era cardiopatica e gli sforzi davano un senso concreto alla sua malattia.
Per quanto provassero fallivano sempre e, rassegnate, guardandosi negli occhi, con la stessa solennità con cui puoi decidere di impegnarti le lenzuola per fronteggiare una spesa imprevista, ricorrevano all'ultima ratio, che poi, a ben vedere, era stata l'unica opzione sin dall'inizio.
Chiamiamo Teresa? chiedeva nonna con dignità e mamma rispondeva rassegnata e chiamiamo Teresa.
Teresa era (è) la figlia dei vicini di casa (quelli del piano di sopra) una giovane ragazza, all'epoca studentessa di medicina, oggi medico affermato (lavora al San Camillo), dalla stazza generosa e abbondante, alla quale, tra mille profferte di scuse e inchini, mamma e nonna chiedevano umilmente l'intervento.
Teresa scendeva al nostro piano, entrava in casa, preceduta da mamma e nonna che proseguivano con gli inchini, percorreva i lunghi corridoi di casa nostra fino alla stanza da letto (quella più interna all'abitazione), si avvicinava al baule ancora aperto, ci si sedeva sopra e mamma e nonna potevano chiuderlo alacri.
Teresa, la faccia mesta, di chi si rassegna a essere utile non per una sua capacità, scendeva dal baule, ripercorreva i corridoi, nonna e mamma sempre più prone, usciva da casa nostra, risaliva le scale e tornava a casa sua.
Questo siparietto si ripeteva ogni anno ed era entrato a far parte del nostro rituale della partenza. Se Teresa chiudeva il baule si partiva davvero.
La nostra Ginecrazia era un matriarcato alla buona, senza rivendicazioni di principio, che funzionava nei fatti.
Niente uomini forzuti in giro per casa a spargere i loro ormoni in una famiglia di due donne e due bambine...
Solidarietà tra donne, intesa muliebre, ne sono cresciuto avvezzo.
Non ricordo come facessero nonna e mamma al rientro, quando dopo un mese di albergo e mare e di cianfrusaglie acquistate, si presentava nuovamente la necessità di chiudere il baule.
Magari chiamavano Teresa per telefono e poi bastava poggiare la cornetta sul baule...
Pubblicato la prima volta sul blog paesaniniland il 15 luglio del 2010
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