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Ridi pagliaccio



Sono le otto di sera.
E' estate, la fine di Agosto.
Fa ancora molto caldo, per strada non c'è nessuno.
Mi sento a mio agio anche se indosso solamente gli short cortissimmi che porto in casa e una canotta a righe bianche e rosse piena di macchie.
Ho in mano due buste dell'immondizia che mia nonna mi ha mandato giù a buttare.
Sono eccitato perché questo è un momento tutto mio, sono da solo.
Per un attimo fantastico pure di andare chissà dove, scorrazzando libero per le vie deserte del quartiere.
E' il 1978, ho tredici anni.
Mi guardo intorno e mi pervade già la nostalgia, per il tempo che scorre via, senza che io faccia niente per approfittarne, per tutte le potenzialità che la vita suggerisce e che io ancora no so cogliere.

Mi guardo intorno, i villini a due piani che circondano la mia palazzina sono illuminati da una luce del sole calda e gialla che ricorda quella di certi quadri di Fattori. Penso a tutte quelle persone che vivono nascoste nelle proprie case, della cui vita mi chiedo solo per un attimo, perché vengo subito distratto da una nuova emozione. 

Non riconosco subito la canzone ma le sue note già mi procurano riverberi emotivi, echi emozionali difficili da gestire, da capire, da catalogare.

Poi riconosco le note di Ancora ancora ancora di Mina. 

E' già la terza volta, nel tempo, che una canzone di Mina mi sovrasta, sovreccitando i miei sensi, stuzzicando la mia enorme capacità di provare nostalgia, di struggermi, disperando anche, con la stessa  fascinazione di una cosa proibita, una ...masturbazione dell'anima che posso solamente subire e non agire, perché per avviare quella subitanea eccitazione d'umore ho bisogno di una musica (più raramente può essere un profumo...) che mi inonda, mi stordisce, proprio come l'eccitamento sessuale.

Mina la conosco perché piace a mia madre e provo simpatia per lei, ma niente di più.
Non colgo il nesso con la cantane lì per lì... 
Mi meraviglia solo il ricorrere di una voce, di un nome.

Erano altre, all'epoca, le cantanti che mi piacevano: Loretta Goggi, Raffaella Carrà, Paola Tedesco, Ombretta Colli. 

Di Mina mi aveva colpito da bambino Dindi canzone della quale mia madre aveva il 45 giri (lo custodisco ancora gelosamente) e che, di tanto in tanto, su mia richiesta, mi facevo cantare da lei, come una ninna-nanna.

Poi c'era  stata Pioggia di Marzo, nel 1974a entrarmi nell'anima, rimanendovi indelebile per sempre. Avevo solamente nove anni quando la sentii per la prima volta ma già allora ne ero rimasto  immensamente colpito. Ancora oggi, dopo tanti anni, quella canzone ha la capacità di farmi provare le stesse emozioni.

Erano la canzoni però a piacermi non ancora Mina, anche se quando mio padre mi chiedeva cosa mi sarebbe piaciuto farmi regalare, rispondevo Pioggia di marzo di Mina.

Un pomeriggio del 1975, due ragazze, per strada, mi passarono accanto, camminando spedite, a braccetto, mentre cantavano all'unisono "la rosa allo Jo-jo, ninna-o ninna-a, è un dolore però tanto male non fa". Rimasi colpito che altre persone conoscessero le canzoni che piacevano a me.

Nel mese di luglio di quello stesso anno passavo il mio tempo in giro per la via dove allora abitavo, trascinandomi dietro un radioregistratore che mi era stato regalato per il compleanno, il mio orgoglio. Mentre seguivo un quiz radiofonico condotto da Mike Buongiorno, dopo una domanda sul piloro, me la ricordo ancora, Mike annunciava La scala buia di Mina. 
Anche in quella occasione era stata la canzone ad avermi colpito. Non avevo pensato ancora alla cantante, a Mina.

Ma quella sera di Agosto 78, mentre ascoltavo Ancora, ancora, ancora, la verità mi colpì con un'evidenza che mi fece trasalire.

A ME PIACE MINA. Come mai non me ne sono accorto prima?!?!

La constatazione mi colpì con la solennità di un'epifania e, all'improvviso, mi scopersi fan, alle prime armi, sì, perché conoscevo ancora ben poche canzoni della mia Dea, ma un fan di vecchia data, che la seguiva e la amava praticamente dai primi anni di vita.

Iniziò così la mia esplorazione dei suoi dischi, del suo immenso repertorio, e, per qualche anno, fino al 1983, fu una festa immensa. 
Appena racimolavo qualche soldo comperavo uno dei suoi innumerevoli lp e così, per me, era un po' come se uscisse un disco nuovo ogni mese... 

Dal 1983, quando avevo comperato ormai tutti i dischi disponibili sul mercato (italiano...), dovetti accontentarmi dell'uscita, verso Ottobre, del doppio album che pubblicava puntualmente ogni anno. 

L'ultimo disco vecchio che comprai fu Mina canta o Brasil. Provai una tristezza immensa.
La gioia  di scoprire dischi vecchi, per me nuovi, nuovissimi, era finita,  per sempre.
Ancora oggi mi capita di tanto in tanto di sognare di scoprire per caso un vecchio nuovo disco di Mina... In sogno vedo bene la copertina, le tracce dell'album, mi sembra di ricordarmi anche i titoli. So che è un sogno e spero sempre di ricordarmi qualcosa di del disco una volta spento. Ma non mi ricordo mai niente...

Tornando a casa con Mina canta o Brasil  in mano, ancora intonso, trovai Paolo settimo ad aspettarmi, in tuta e foja, come al solito.
Nemmeno la sua presenza riuscì a rallegrarmi. Fu una doppia tristezza, il disco e il pompino.

La puntualità nelle uscite dei dischi di Mina, un doppio all'anno, ogni anno, almeno fino al 1995,  ha legato i suoi lp a doppio filo a praticamente a tutti gli eventi della mia vita,  dal 1980, quando comperai il mio primo disco, Attila ad oggi, che le uscite si sono ahimè diradate.
Nel 1990, quando uscì  Ti conosco mascherina, praticamente una settimana prima della morte di mamma, lo andai a comperare  prima di recarmi in ospedale, dove, seppure fosse svagata e poco presente a se stessa, non riuscii dal trattenermi di  dirle che era uscito un nuovo disco di Mina. E lei,  non più presente a se stessa, riuscì lo stesso a rispondermi Ah sì? 

Quando cominciai a esplorare e scoprire l'immenso repertorio di Mina risvegliai in mia madre tanti ricordi e un pizzico di nostalgia. 
Scoprii così che quelle canzoni per me nuove per mia madre erano fonte di ricordi e testimonianza di un tempo andato, di una vita vissuta.
Con il sorriso sulle labbra e una voce mesta mi raccontava i ricordi legati alle canzoni che ascoltavo,  ricordi di amici, feste, balli e corteggiatori, una vita ben diversa da quella che conduceva ora, di donna separata e madre di me e mia sorella. 

Ho sempre pensato che mia madre si struggesse di nostalgia per quel tempo lontano che, proprio perché lontano, non sarebbe tornato più.

Per me nel 1980, a 15 anni, canzoni degli anni sessanta appartenevano a un tempo remoto, al mio pleistocene, addirittura a prima della mia nascita. 

Non potevo sbagliarmi di più.

La nostalgia che attribuivo a mia madre era solamente mia.
Per mia madre quei quindici anni non erano percepiti temporalmente come li percepivo io.

E' stata Margherita Hack a spiegarlo una volta con l'eleganza e la semplicità che la distinguevano.   
Quando si è giovani anche solo dieci anni costituiscono una buona porzione della propria intera esistenza, anche la metà se non più.
Quando si diventa grandi quel lasso di tempo si riduce a porzioni più piccole della vita vissuta e se ne ha una percezione diversa.
Proprio iersera mentre scrivevo altre noterelle per questo blog (un post che si intitola Darkroom) ho riascoltato Come Gocce da Olio che è un album di esattamente 20 anni fa. Son stato colto da una vertigine. Perché per me quei vent'anni sembrano proprio ieri.

Altro che Pleistocene!

Nel 1999 stavo con Daniele, alla casa di Montagnola, la mia prima casa nella quale vivevo da solo, senza la stronza, e  Daniele  sarebbe prestovenuto a vivere lì con me. 

A  15 anni, il mio pleistocene, a mia madre doveva essere sembrato un presente sensibilmente altro, dati i diversi trascorsi, ma sempre presente.

La sua nostalgia, benevola e con il sorriso nel viso, non era per il tempo che fu  ma perché quel passato pur trascorso era un presente anche se un presente completamente diverso. 
In quel lasso di tempo c'erano stati un matrimonio, due maternità, la separazione e la raggiunta di un nuovo equilibrio a casa di sua madre, in quel di Monteverde.

Ricordo perfettamente certi pranzi a Monteverde con mia madre e mia sorella come quando suonavo Ridi Pagliaccio che, come al solito, mi piaceva a metà, come molti dischi di Mina, la cui verve enciclopedica non rendeva possibile ti piacesse ogni singolo brano. Mi era successo per Attila e Kyrie e  poi si ripeterà molto raramente: miracolosamente lo scorso anno con Maeba dopo tanto tanto tempo. 

Quel giorno a pranzo mentre mia madre mi dice qualcosa che non ricordo più, ricorso solo che non gradii quel che mi disse, io come commento misi il brano Lui, lui lui (che mi faceva schifo) solo perchè a un certo punto nella canzone diceva cosa ho fatto cosa ho fatto (sottintendendo per meritarmi questo) e mia madre, che coglieva l'allusione si era messa a ridere, divertita e ironicamente soddisfatta della mia insofferenza.

Ecco cosa intendo che mina è legata a doppiofilo alla mia vita. Alle fibre stesse della mia esistenza dei miei ricordi. 

Capitava spesso che a casa di Frances ci fosse a cena qualche americana che la mia amica americana aveva incontrato per TrastevereFrances non poteva evitare di sentirne l'accento, darle consigli turistici, informarsi sulla sua provenienza e, a seconda del livello di intelligenza mondana dell'americana, spesso arrivava l'invito a cena.

Quella volta la scelta trovava d'accordo anche me, nessuna madre di famiglia, nessuna cattolica fervente credente (Frances non si fermava davanti a nulla) ma una donna bella, non più giovane, che viaggiava da sola, lesbiana, come diceva Frances nel suo italese (ma non è mille volte meglio lesbiana di lesbica?) per niente intimorita dall'esuberanza di Frances come capitava spesso alle altre (vatti a fidare delle donne cattoliche).

Frances era in cucina a preparare la cena, io e la ...lesbiana ascoltavamo alcune arie di Richard Tucker il famoso tenore americano che era uno zio di Frances.

Quando arriva Vesti la giubba, da  I Pagliacci di Leoncavallo, io inizia cantare sull'aria.
La conosco  perché nonna era una melomane popolare e conosceva tutto Puccini e tutto Verdi e li aveva fatti conoscere anche a me anche se Verdi mi ha sempre annoiato a morte, scandalizzatevi pure quando vi dico che Va pensiero mi fa venire le bolle, noiosissima, patetica, mortale, nefasta.

Leoncavallo l'aveva cantata anche Mina nell'album Ridi Pagliaccio.
Eccomi lì che canto impettito metre Frances si prodiga in plateali gesti di impazienza e fastidio.

Nella versione di Mina l'aria viene interrotta subito dopo avvelena e invece di dire il cor parte un pezzo scritto dal figlio, tutto chitarre,  dal pretenzioso titolo tedesco, introdotto da un One, two, threee, four che Mina pronuncia uan ciu thi fo, andatevelo a sentire, non dovete credere a me.

Io sono lì, che canto l'aria, e il momento in cui nella versione di Mina arriva il uan ciu thi fo si fa sempre più vicino.
Frances è sempre più nervosa e fa avanti e indietro dalla cucina al salotto.
Poi, subito prima dell'ultimo ridi pagliaccio, poco prima dell'avvelena il cor Frances esce dalla cucina e, indicandomi, dice alla sua invitata, se dice uan ciu thi fo lascio la stanza (I leave the room).

Io crollo a terra ridendo così tanto che mi soffoco e comincio a tossire e a lacrimare senza mai smettere di ridere. L'americana non capisce. Io mi sento così capito, conosciuto e amato da Frances come fosse al contempo mia madre mia sorella e la mia donna. 

Non c'è niente da fare. Dopo la morte di Frances io sono una sopravvissuta, l'unica superstite di un attentato, di un incidente. Vivere senza lei è doloroso quasi quanto la mia morte che spero avvenga lontana anche se, insciallah, a volte temo che sia più di vicina di quanto non pensi. 



La prima parte di questo post è stata già pubblicata su paesaniniland nel 2008 con il titolo 25 marzo 1940 

Rivisto e modificato il 27 giugno 2022

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