Incubo n° 4
Quando ero molto piccolo, tra i quattro e gli otto anni, avevo un incubo ricorrente.
In camera da letto, quella che sarà la camera mia e di nonna e, infine, la camera di mia sorella, c'era mamma, a letto, ammalata.
Mamma era circondata dalle zie e dal dottor Teotino che armeggiava tra medicine e strumenti medici.
La stanza era in penombra, quasi al buio, unica fonte di luce era l'abat-jour del comodino di mamma.
Nessuno si accorgeva della mia presenza, erano tutti e tutte troppo su mamma per potersi accorgere di me.
Io potevo così allontanarmi, non visto, come succede ai bambini che la fanno franca dalla supervisione adulta.
Mi avvicino pericolosamente alla porta della stanza che dà sul corridoio buio.
Ed io avevo paura del buio, ricordate?
Sapevo che nel buio cera una presenza cattiva che, se mi fossi avvicinato abbastanza, m'avrebbe catturato.
Io ne ero al contempo impaurito e affascinato.
Da un lato volevo rimanere alla luce, per sapere cosa succedeva a mamma, se usciva da quella malattia che la allettava oppure no.
Dall'altro la presenza che mi avrebbe rapito mi permetteva di sottrarmi a quell'indeterminazione della salute materna, che mi sfiniva.
Poi, per distrazione, mi avvicinavo troppo al corridoio buio e in un secondo ero catturato.
Non potevo più muovermi, respiravo a malapena, mentre la presenza cattiva mi urlava con un vocione d'oltretomba nelle orecchie e in un secondo mi alzavo verso il soffitto e oltre.
Vedevo tutto dall'alto, come se casa fosse scoperchiata.
Io cercavo di urlare ma più urlavo più l'entità cattiva mi urlava a sua volta nelle orecchie neutralizzando le mie urla con le sue ben più numinose.
Nessuno, nessuna, sembrava accorgersi di me nemmeno allora. Nessuna si accorgeva della mia assenza.
L'entità cattiva che mi aveva catturato mi trascina verso il buio del corridoio.
Io ho paura che quel corridoio buio mi inghiotta in un nero infinito. Sento che sto volando sopra il pozzo nero del corridoio infinito.
Poi dopo attimi che paiono eterni arriviamo al secondo corridoio, quello che dà verso l'ingresso e all'uscita di casa.
Lì, all'angolo di incontro tra i due corridoi, di fronte alla cucina, c'è nonna, seduta su una panchina, al lume di una lampadina, che fa l'uncinetto.
L'entità cattiva continua a trascinarmi con sé verso l'uscita di casa.
Nonna deve sentire la mia presenza perché solleva gli occhi verso di me mentre la sorvolo ma non mi vede, forse per il troppo buio.
Io le volo sopra, la supero, so che lei è il mio ultimo baluardo di umanità.
Persa lei sarò perduto per sempre nel buio infinito ed etereo in compagnia di questa entità che ora non mi urla più nelle orecchie ma è intenzionata a trascinarmi con sé, nell'oblio del buio.
A questo punto mi sveglio sempre.
Il sogno divenne riconoscibile e ricorrente.
Così l'attrazione per l'entità cattiva diventava quasi appetibile perché il rischio che correvo non era ignoto. Sapevo che mi sarei spaventato per le urla (il vocione) e perché volavo.
Un po' come se tornassi sulle montagne russe dopo esserci stato una prima volta temendo di morire e non essere morto.
Però quel sogno mi faceva sempre paura perché in quel sogno ero solo, mia madre era malata, mia nonna non riusciva nemmeno a vedermi, anche se mi percepiva, e io venivo portato via da quella casa verso una uscita immersa nel buio da una presenza numinosa che allora avevo pensato fosse papà.
Quel papà cattivo e pericoloso con l'immagine del quale ero cresciuto.
Pensavo che il sogno tradisse il mio timore che nella Ginecrazia io non avessi un posto. Come se fossi destinato solamente a guardare, proprio come quando venni ammesso al corso di teatro per ragazze di Franca Rame come mero osservatore che non poteva partecipare.
In realtà ero io che desideravo andarmene da quella casa, lo capisco solo ora.
Il mostro cattivo era la mia voglia eversiva di conoscere quel che c'era al di là della porta di casa.
E' interessante che il buio non fosse fuori di casa ma fosse tra la camera di mamma e l'uscita di casa.
Evidentemente mi faceva più paura lasciare casa che affrontare il mondo.
La malattia di mia madre era metafora di qualcos'altro.
Circondata da persone che la curano dove però il nume tutelare è maschile dovevo percepire il doppio pericolo che mia madre correva in quanto donna.
In quanto donna sola in una società di maschi e in quanto donna tout-court in una società patriarcale. Quel che valeva per zia Clara come rischio valeva anche per mia madre.
Io ero escluso dalle cure per mamma e mia madre era schiacciata dai suoi bisogni e della attenzioni altrui e non aveva per me attenzione alcuna (non che non volesse ne era solamente del tutto incapace) e nella stanza infatti non ero nemmeno percepito presente. Come se osservassi tutto al di là di una parete di vetro.
Lì non era il posto mio, il posto mio era fuori in uno spazio del tutto inconosciuto come l'iperuranio platonico, al quale non avevo idea di come accedere e nemmeno sapevo se davvero lo volevo.
C'era la terza via quella veramente ginecratica di mia nonna, che però era relegata a metà strada tra il qui e ora materno e l'altrove per accedere al quale dovevo attraversare la selva oscura.
Stazione intermedia, nonna aveva già dato. Era tata potente ma ora faceva la calza, anche se aveva ancora la capacità di vedermi.
Ora che ci ripenso sembrava quasi sorpresa di vedermi volare.
Cioè sorpresa di vedermi compiere quel gesto che non volevo fare per pavidità.
Altro che Cabala!
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