Grazie ma'!
Un pomeriggio del 1991 mi sembra di vedere mamma.
So che è impossibile. Mamma è morta.
Eppure la donna che vedo allontanarsi di spalle, con quella certa andatura, quella schiena diritta, quei vestiti, non mi fa pensare a mamma, mi sembra proprio lei.
Se credessi ai fantasmi l'avrei raggiunta prendendola per una spalla e chiamandola per nome.
Ho sognato spesso mamma dopo la sua morte, anche.
Era sempre una mamma rediviva.
Mamma in sogno era debole, mesta, quasi triste, ma in piedi e presente a se stessa.
Sapevo che sarebbe dovuta essere morta ma, inspiegabilmente, era ancora viva e so che sarebbe morta presto.
Così la gioia per il ritrovarla diventava subito dolore per la sua morte imminente.
Un dolore lieve che è sempre stato la nota portante di quei sogni che si sono diluiti nel tempo solamente cinque-sei anni dopo la sua morte.
Il mio subconscio doveva avere preso il modello per evocarla in sogno dal ricordo di una mattina di Agosto quando, in ospedale, prima che si scoprisse che era in aids conclamato, era ricoverata ancora nel reparto di neurologia del San Camillo.
Una grande corsia con tanti letti, quasi come quella di Umberto D. di De Sica-Zavattini.
Erano le otto di mattina, mamma si era svegliata da poco e mentre la accompagnavo in bagno, in un raro momento di lucidità, mamma mi disse, preoccupata e affranta, dio come sto male.
Dieci minuti dopo era già scollata dal qui e ora e incollata al flusso mnestico del suo presente passato fatto di Alessandro e Silvia e del suo gatto Buio che lei cercava intorno a sé non già nel lì e allora ma in un suo sentire interno e interiore che era tutto il reale del quale la sua leucoencefalopatia le permetteva di fare esperienza.
Morta mamma mi sono munito di una mamma tascabile cui potevo rivolgermi ogni volta che pensavo che una situazione o una circostanza l'avrebbero fatta ridere o incazzare e divertito, complice, mi rivolgevo a lei direttamente dicendole, a seconda dei casi, piace anche a te! o tu questo non lo avresti sopportato, vero?, sempre a voce alta, mentre in tralice sovrapponevo le mie reazioni alle supposte sue, per riscontrare similitudini e contrasti.
Una volta morta scoprirmi distante o simile a mamma, a seconda dei casi, mi divertiva.
Mi distendeva scoprire mamma in me.
Non tanto la sua eterna cassetta di genitrice quanto scoprire piuttosto che liberamente, per affinità elettive, a volte io e mia madre guardavamo il mondo con gli stessi occhi, ci divertivano le stesse cose, ci davano fastidio gli stessi dettagli.
Un po' come Data che porta i ricordi di sua figlia Lal nel suo cervello positronico (stiamo parlando di Star Trek) io porto mia madre in me, e siccome lei è stata prima di me è un po' lei che porta me.
Sempre perché sono pigra.
Però l'idea che mia madre mi porti ancora non mi ha mai lasciato e mi ha dato la forza di andare avanti.
D'altronde per una di quelle strane evenienze genetiche somiglio molto più io a mia madre che mia sorella, che ha invece preso da papà.
Questo Silvia lo ha sempre riconosciuto tributando lei alla mia folta chioma a una forte somiglianza a quella di mamma dicendo che avrebbe voluto avere lei i capelli di mamma che invece erano capitati a me tanto che Mirella ero io.
In realtà non è proprio vero.
Mamma aveva i capelli nero corvino io li ho sempre avuti marroni ma la chioma folta era la stessa.
Mi sono fatto crescere i capelli perché potevo permettermelo e da allora, tranne due volte in cui li ho portati cortissimi, una per me, l'altra per Daniele che non sopportava avessimo entrambi i capelli lunghi, ho sempre portato la chioma folta e lunga, anche se quasi tutti, quasi tutte, mi hanno sempre preferito coi capelli corti, dicendomi di tagliarli o plaudendo alla mia decisione di portarli corti, quelle due volte che l'ho fatto.
Solamente il mio parrucchiere di Monteverde era entusiasta dei miei capelli lunghi e mi diceva non solo che erano belli ma che sapevo anche portarli bene.
Oggi, a 54 anni, i miei capelli lunghi non sono certo più quelli di quando ne avevo 25, ma danno ancora nell'occhio, vedo come la gente li guarda, magari mi imbolsiscono, o mi invecchiano, o mi rendono diverso, strano, non conforme, o buffo.
Tutti aggettivi che illustrano uno dei molteplici aspetti della mia persona, del mio carattere, del mio senso ironico, autoironico, caustico e sempre un po' sboccato.
Ancora oggi mi capita di rivolgermi a mamma quando mi trovo in situazioni imbarazzanti e me la cavo per il rotto della cuffia.
Lo sguardo va verso l'alto e un ringraziamento va sempre a lei. Sempre.
Guardo al cielo non tanto per implicare il paradiso quanto per alludere alla sua dipartita, come quella nei cartoni animati, con l'anima, trasparente e con le ali, che sale, una lira in mano.
Se avessi assistito alla morte di mamma invece di cercare di chiamare mia sorella al telefono sono sicuro che l'avrei vista lasciare il suo corpo così. Con la lira e la sottana.
Feci menzione di questo mio contatto ideale con mia madre a un incontro sulla fede nel quale ero stato invitato per testimoniare la mia assenza di fede.
Dopo aver spiegato che il mio radicalismo non mi faceva fare professione di ateismo perché dire che dea non esiste vuol dire riconoscere comunque un senso alla domanda dea esiste? mentre è proprio la domanda a non avere senso (come prodotto umano certo che l'idea di dio esiste ma non potendo prescindere da noi stessi e noi stesse non possiamo pretendere di conoscere il noumeno divino... dio c'è perché ci siamo noi senza id noi non possiamo sapere se c'è...). Insomma mentre vaporizzavo anche la menoma possibilità di un ente superiore, ma che noia, che presunzione, che provincialismo, che voglia di essere proni e prone, raccontai di questo mio legame con mamma e la cercai, in quell'occasione, sopra e sotto, dove, in quel contesto cristiano, mi auguravo stesse, perché, come Milton, sai che noia il paradiso!
Tra le tante volte in cui l'ho ringraziata una è rimasta epocale, ed essendo una cosa capitatami da solo, lo sappiamo solo io e lei.
Una sera Fabrizio, un ragazzo che avevo rimorchiato sulla spiaggia e che frequentavo da una settimana senza davvero volerlo, dopo una giornata passata al mare, aveva preferito tornarsene a casa sua invece di rimanere a dormire da me come programmato, perché aveva preso troppo sole.
Alle tre di notte il ragazzo etero col quale ero in tresca e che mi veniva a cercare quando voleva lui, del quale Fabrizio era stato un maldestro tentativo di sostituzione, si presentò sotto casa trovandomi sveglio a leggere Jurassic Park.
Era un altro Agosto e io all'epoca d'estate dormivo pochissimo.
Mentre mi affaccio in balcone e Luca mi chiede se sono solo realizzo di avere rischiato grosso. Se Fabrizio fosse rimasto a dormire gli avrei dovuto dare i vestiti, dirgli di uscire di casa, salire in fretta all'ultimo piano, là dove da adolescente io e Graziano andavamo a fare sesso, aspettare che Luca salisse, intanto poteva vestirsi e poi andarsene, mentre io accoglievo Luca nel mio letto.
Sono lì, in mutande, in balcone, e gioisco perché non devo sottopormi a tutto quel bailamme (io, non Fabrizio!) e, lo sguardo al cielo, dico con voce quasi sussurrata ma convinta grazie ma'.
A volte mi immagino che lei da lassù mi guardi mentre commetto tuti gli errori che commetto coi ragazzi mentre scuote la testa, come il marito di Brenda in Bagdad Caffè, non con fare giudicante ma con lucida, benevola, materna comprensione.
Sono sicuro che anche dopo aver visto come mi lasciavo trattare dal Flusso abbia scosso la testa, a lungo, energicamente, con le guance che se ne andavano di qua e di là, come Raimondo Vianello nella sigla finale di (di nuovo) tante scuse ma non credo più sia stata lei a farmi incontrare Giamburrasca, visto poi come la nostra storia si è conclusa.
Lo so, senno di poi.
Quando stavamo insieme mi pascevo all'idea che me lo avesse mandato mia madre.
Forse è stata più quella stronza di Dea che si diverte a farmi vivere una vita in pain, un po' come tutte noi, per questo, dico, siete così convinte di credere a una divinità?
Eppure, ciononostante, sono qui.
E anche di questo, grazie ma'!
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