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Del mio peggio n° 4


Quando abitavo a Monteverde nuovo,  nell'appartamento in corrispondenza del nostro, al piano di sotto, abitava una famiglia con la quale la mia era legata da una antica frequentazione.
Famiglia di origini siciliane come la nostra, la capofamiglia era donna,  che io ricordo già anziana, nervosa, capricciosa, lamentosa, che aveva due figlie, più o meno coetanee di mamma, con le quali mamma aveva trascorso l'adolescenza.
Marcella, mora e riccia, era una gran bella donna, che si era sposata con un uomo meno bello di lei.  Rosalba era una bellezza anni sessanta, andava in giro coi capelli cotonati biondi e, a detta di mamma, non era molto sveglia. Mamma si divertiva a raccontarmi spesso di quando, da giovani, legando più con Marcella che con lei, cercava di escludere Rosalba portando tutto il gruppo di amiche a giocare chez nous.  
Una volta  Rosalba viene a cercare sua sorella a casa di mamma, e mamma che non vuole riceverla  risponde con voce fantasmatica, attraverso la porta chiusa, non c'è nessuuunooo e Rosalba, rispondendo   franca ah non c'è nessuno?  se n'era andata.
Mentre mamma rideva di Rosalba, rea di non avere considerato qualcuno quella voce che le aveva parlato io pensai che o aveva pensato a una risposta da parte di nonna, oppure era stata una sua reazione strategica alla delusione di essere presa in giro così smaccatamente. La versione di mamma sapeva troppo di barzelletta e se un giudizio così improbabile poteva essere giustificato da adolescente mi sorprendeva che mamma non lo avesse rivisto da adulta e che rimanesse ancora fedele a quella prima interpretazione ormai imbarazzantemente insostenibile.
Mi guardai bene da dirlo a mamma.
Ci vedevo una sorta di nemesi in quell'espressione di stupidità che mamma tradiva nel raccontare la stupidità di qualcun'altra.
L'ignavia di mia madre da adulta la rendeva ai miei occhi meno cattiva nell'aver escluso Rosalba allora.

Il pezzo forte che mamma raccontava su Rosalba era una reazione che l'amica esclusa aveva avuto una volta, da adulta, a un commento di mamma che la aveva descritta come mani buche  e Rosalba, guardandosi preoccupatissima le mani aveva negato, preoccupata, dicendo che non aveva buchi.
O Rosalba era davvero deficiente o aveva una ironia leggera ed elegante che mamma non coglieva mai.
Ogni volta dopo avermi raccontato questi due aneddoti, con un disprezzo per la naiveté di Rosalba tanto imbarazzante quanto crudele, mamma rideva con lo stesso tipo di risata crassa di quando  sfotteva me per la mia paura del buio. Per cui, vedete, ero un po' Rosalba anche io.

Rosalba aveva una figlia, Barbara, una ragazza molto appariscente (a usare il lessico di nonna), Marcella il piccolo e cucciolo Antonio.

Li vedevo spesso anche perché Rosalba e Marcella dopo essersi sposate avevano continuato ad abitare entrambe nel quartiere, e il e la nipote venivano spesso a visitare la nonna.
Barbara avrà avuto un paio d'anni più di me, sapeva di essere bella.
Una volta che mi aveva ricevuto a casa sua, io avrò avuto dieci anni, prima mi fece entrare  in casa e poi mi invitò ad andare nel giardino che costeggiava la casa, al pianterreno, spiegandomi che doveva finire di vestirsi. Per me una femmina mezza nuda che finisce di vestirsi non costituiva curiosità alcuna visto che era una abitudine nella ginecrazia.
Così aspettavo che lei mi raggiungesse, mentre Barbara attendeva che io passassi davanti la finestra spalancata della sua camera, dove mi aspettava in topless, pronta a urlare come una scalmanata appena fossi stato a portata di vista.
Io me ne rimanevo fermo inconsapevolmente sabotando il suo scherzo  solo quando mi spazientii per l'attesa cominciai a passeggiare finché caddi nella trappola.
Io mi meravigliai in quella reazione che trovavo esagerata ed ero così tonto che non mi sarei reso conto dello scherzo-provocazione nemmeno se Barbara fosse stata un ragazzo che si faceva sorprendere con il pisello di fuori.
Barbara aveva dei bei capelli biondo chiaro lunghi fino sulle spalle e due seni bianchissimi dall'aureola ancora non molto sviluppata.
Ero tonto ma non ero mica cieco.
L'urlo di Barbara mi aveva imbarazzato. Mi dissi che Barbra non mi trovava attraente, che di me non sapeva che farsene, e per me fu subito una conferma indiretta del mio essere un maschio fallato. fossi stato maschio come tutti gli altri Barbara avrebbe saputo cosa farne di me.

Quanti strati di giudizi terribili sono affastellati in questo mio vissuto emotivo.

1) L'idea che la seduzione è qualcosa che emana indipendentemente da te, spontaneamente, a prescindere da quello che tu fai.

Questa idea l'ho sussunta dal fatto che quando vedo un ragazzo che mi piace, mi piace per la sua aura di bellezza, a prescindere, di per sé, prima ancora che inizi a parlare, perché normalmente, anzi, quando parla, comincia a piacermi di meno...

2) L'idea che un maschio sa cosa fare a prescindere dalle esperienze che ha avuto. La conoscenza innata gli viene dalla sua maschità  (non parlo di ruoli ma di essenza) la stessa che lo sa far correre e andare in bici, etc.

Entrambe idee platoniche. Sono stato platonico prima ancora di sapere cosa fosse il platonismo.

3) L'idea, patriarcale stavolta, che se a un maschio piacciono tutte le donne, non c'è possibilità che a me Barbara potesse non piacere.
Io risentivo del fascino di Barbara, la sua fisicità evidente, la sua bellezza, non mi erano indifferenti e anzi sentivo che mi chiamavano in causa ma non sapevo come districarmi. E questo farmi nettare fallato mi creava una sorta di ripulsione per Barbara, per Barbara in quanto femmina.
Se ero fallato percezione le femmine mi chiamavano? E non mi rendevo conto che ero io a subirne il fascino pensavo fossero loro a chiamarmi.
Meglio pensavo che da me si aspettassero quello che si aspettano da tutti gli altri maschi. Questa atrocità se la vivono tutti i maschi. Quello che mi differenziava è che io non volevo concludere con loro visto che ero interessato altrove. La pressione sociale della performance virile però la vivevo anche io come tutti gli altri ragazzi.

Quando crebbi diventai un poco meno platonico e accettai il fatto che mi potevano piacere delle ragazze. Ma, essendo eroticamente eccitato solamente dai ragazzi questo desiderio era sterile, non portava a nulla, sostituendo una vecchia falciatura a una nuova un po' più sofisticata (in entrambi i significati).
Io già ero imbarazzato con le ragazze perché, sapendo di non esserne spontaneamente attratto, mi sembrava già di mancar loro di rispetto. Come potevo poi permettermi di concedermi che Barbara  mi stava antipatica e quindi di lei non mi interessava nulla?
Si sarebbe sommata mancanza di rispetto su mancanza di rispetto.

Inoltre dire di una ragazza che non mi piaceva significava agire quella misoginia che si associa implicitamente all'omosessualità.
Temevo che tutti e tutte pensassero che Barbara non mi piaceva non perché mi stava antipatica lei ma perché non mi piacciono le donne.
Proprio che pensava mia madre.
Questo è stato uno dei motivi di maggiore imbarazzo per me nel dire che ero gay perché nel dirlo implicavo automaticamente che non mi piacessero le donne mentre per me essere gay vuol dire che mi piacciono gli uomini non che non mi piacciono le donne.

Questo fatto che la tua identità sia basata non su una affermazione propositiva mi piace questo ma su una affermazione negativa non mi piace quella è una forma di nascondimento, di cancellazione dell'omoerotismo.
Al frocio non è nemmeno concesso il riconoscimento che gli piacciono gli uomini. Al frocio più semplicemente non piacciono le donne e rimaniamo nell'alveo etero.

Ora, almeno nella mia professione (aperta e pubblica dichiarazione di un sentimento, di un'opinione, della propria appartenenza a una religione o a una corrente ideologica) di omosessualità posso parlare di uomini escludendo una volta tanto le donne?

Forse anche per questo non sopporto l'idea del vegetarianismo che si definisce come un piacere negativo. I  vegetariani non preferiscono altri cibi rispetto la carne a loro non piace la carne.

La mia idea di essere un maschio fallato era sostenuta da un vissuto familiare personale e atipico: la malattia mentale di mio padre, il continuo sabotaggio di mia madre che cercava di disinnescare così quella potenzialità pericolosa che vedeva in me in quando appartenente al genere maschile.

Però l'idea che fossi fallato nasceva anche dal fatto che, scoprendo in me la mancanza di alcune pulsioni del maschio sociale (provarci con tutte le ragazze, avere una fisicità innata e competitiva) tutte cose che a me mancavano, invece di indurmi a dire che nella maschilità ci doveva essere spazio anche per me, come penso oggi, mi faceva sentire appartenente a una categoria altra, compiendo lo stesso errore ontologico di tutto il movimento queer che, per distinguersi dai maschi che si comportano come il patriarcato, non lottano per cambiare la maschilità dall'interno, ma creano nuove categorie, cisgender versus transgender (e vi ricordo che per il movimento queer io sono transgender perché porto i capelli lunghi anche se sono un maschio) proprio come io mi ero creato la categoria maschio fallato.

Con l'unica differenza che io avevo 10 anni il movimento queer è fatto da persone adulte, forse...
Forse no.Forse è fatto da persone adulte che stanno recuperando l'adolescenza perché da adolescenti dovevano lottare contro tutte le omofobie...

Ma sto divagando.

Tornando a Barbara, una volta mi proporre di fare uno scherzo al cugino Antonio.
Barbra intima al cugino di scendere al piano seminterrato mentre noi rimaniamo al piano terra, nel palazzo dove c'è casa mia e quella di loro nonna, Antonio lo mandiamo giù al piano seminterrato dove ci sono le cantine e anche due appartamenti che danno su due giardini ancora più bassi di quello di casa di graziano, al piano terra.
Noi da sopra lo guardiamo con un senso di superiorità confermato dalla situazione prossemica.
Poi Barbara gli intima di spogliarsi.
Antonio è succube della cugina e a quell'ordine perentorio lui trema tutto ma non riesce ad opporsi.
Io all'inizio sto al gioco perché Antonio è comunque un ragazzo e vederlo in mutande o forse nudo poteva essere divertente, ma quando vedo come trema non mi diverto più di quel gioco che mi sembra improvvisamente violento.
Però, vigliacco, non ho il coraggio di dire niente a Barbara per tema di fare la figura della femminuccia. A me maschio, fa pena una cosa che non fa pena a una femmina.
Dovevo avere una coda di paglia gigantesca quanto il mio ego.
Antonio si salvò solamente perché  era lento a spogliarsi e io dopo qualche minuto infinito, mentre lui cucciolo tremava sempre di più e io mi sentivo un verme, per interrompere tutto quel dolore  dissi  che   mi ero stufato di quel gioco nel quale non succedeva niente e me ne andai.
Barbara cercò di richiamarmi mentre Antonio, approfittato della distrazione della cugina, risalì le scale velocemente e tornò a casa dalla nonna, piangendo, superandomi mentre finiva di ricomporsi dicendoci che eravamo stronzi e cattivi.

Se ripenso a come Antonio tremava  mi sale un calore nella spina dorsale e una voglia di stringerlo, coccolarlo, proteggerlo e chiedergli scusa.

Anche se in un ruolo passivo questa mia esperienza da bullo mi fa ancora stare molto male perché ho causato dolore a un altro essere umano e non c'è niente che possa fare se non perdonarmi o uccidermi ma ormai è fatto e sarà lì per sempre.
Mi far sta male anche l'impassibilità con cui assistei a quello scempio, paralizzato da una vigliaccheria che non mi permise di oppormi a una cattiveria gratuita e non tanto innocente visto che Barbara già sapeva il fatto suo a proposito di ruoli, corpi e desiderio maschile.

E il modo ancor m'offende.




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