I film sono sempre lì, in agguato.
Io sono sempre stato convinto dell'importanza fondamentale delle nostre cornici narrative.
Io per esempio ho sempre pensato di essere fisicamente incapace: non so andare in bicicletta né sui pattini, non so stare dietro a una palla né coi piedi né con le mani, e mi sono raccontato la mia storia, la mia infanzia e la mia adolescenza, in termini di rinuncia, di sconfitta, di incapacità.
Eppure non è esattamente vero.
Che io abbia problemi di coordinazione è un fatto assodato, fa parte della mia natura, forse fa parte della leggera forma di dislessia di cui soffro, anche se non lo so per certo, non sono mai andato a farmi controllare.
Però ci sono state diverse eccezioni a questa mia organica incapacità fisica che sono state ignorate dalla mia memoria perché non rientravano nella cornice narrativa di alessandroborzo.
La cornice narrativa che ho appreso offre talmente resistenza a riconoscere che anche io ho avuto skill (come diavolo si dice in italiano???) fisiche, che ero pronto a scrivere che ho iniziato ad avere exploit fisici solamente dopo la morte di mamma.
FALSO.
Quando ero ancora un bambino, verso i 10 anni, con Marco Graziano,, mia sorella Silvia e sua sorella Mariassunta, esploravamo le cantine del palazzo di Monteverde, buie, solitarie, sporche, che rimandavano a un altro tempo, quando nel palazzo c'era la portiera, e quando tutto doveva essere immacolato ed efficiente.
Non ci addentravamo nell'ala più buia delle cantine, là dove sapevamo esserci i topi, ma in un enorme vano che doveva essere stato il vano caldaie, quando il palazzo aveva ancora un riscaldamento centralizzato, del quale rimanevano solamente i termosifoni nei vari appartamenti.
Noi avevamo una stufa a cherosene posta nel corridoio che dava verso la cucina, e che non riscaldava certo le stanze, ma solo l'ambiente, la avevamo sostituita presto con due stufe catalitiche a gas che spostavamo da una stanza all'altra a seconda delle necessità.
Io e mia sorella abbiamo continuato ad usarle anche dopo la morte di mamma, fin quando siamo rimaste a Monteverde. Spesso la bombola finiva all'improvviso lasciandoci al freddo anche per giorni, come successe un Natale, dato che il bombolaio era chiuso sia Natale che a santo Stefano e ci aveva lasciate al freddo per tre giorni...
Ricordo perfettamente io e il mio amico Paul Cry, subire ore di freddo micidiale in camera mia, riscaldandoci le mani al calore della lampadina a incandescenza che illuminava quel pomeriggio buio e freddo, mentre giocavamo a Risiko.
Questo vano caldaie dava esattamente sotto il cortile d'ingresso del palazzo che terminava con un muretto che conteneva due lunghi tubi di ferro posti uno sopra l'altro che permettevano di vedervi attraverso, verso il giardino che c'era un piano sotto, proprio in corrispondenza del vano caldaie.
Il vano caldaie era illuminato da una finestra dai vetri sporchissimi e quasi del tutto opachi che davano sua altrettanti tubi di ferro in tutto uguali a quelli superiori del cortile.
La finestra si apriva a vasistas abbastanza da permettere di passarci attraverso e accedere al giardino di servizio che non aveva nessuno sbocco, confinando a destra con quello di casa di Graziano, e sul lato sud con il giardino del palazzo accanto dal quale si inoltravano i rami di un nespolo dei cui frutti Graziano era molto ghiotto.
Era quello il motivo principale per cui Garziano era uscito la prima volta, invitandoci a fare lo stesso.
Una volta usciti nel giardino invece di rientrare tramite la finestra a vasistas bastava usare i tubi di ferro come pioli di una scala e raggiungere il cortile d'ingresso.
In realtà la via era percorribile in entrambi i versi e per scendere al giardino bastava scavalcare l'inferriata di tubi del cortile e calarsi giù.
Non so come, non so perché, un pomeriggio che c'eravamo tutti, Graziano e sorelle, io mi provo a salire dicendomi che se ci riusciva Graziano, del quale non avevo una grande stima, potevo riuscirci anche io.
Non era una sfida o una necessità di competizione.
La mia mente razionale mi stava dicendo se ce la fa Graziano non richiede particolari doti atletiche.
Salgo sul primo piolo con qualche difficoltà, più che altro nel calibrare lo sforzo per la salita che era troppo o troppo poco, e poi mi rendo conto che invece di rimanere abbarbicato lì sul primo piolo, prima che la mia paura mi blocchi impedendomi tanto di scendere quanto di proseguire era più semplice salire il secondo piolo. L'unico momento difficile era quando, nel salire, bisognava appoggiarsi con le mani al pavimento del cortile di ingresso mentre si saliva prima di arrivare al primo piolo superiore.
Nemmeno scavalcare i due bastoni di ferro del cortile era difficile, bastava alzare prima la gamba sinistra, spostare il peso del bacino verso quella direzione, e poi dare una spinta con le spalle, tenendosi saldamente alla prima sbarra del cortile mentre anche la seconda gamba scavalcava ed eri arrivato.
Il segreto era la fluidità del movimento, che doveva essere continuo ed armonioso, guai a fermarsi nel bel mezzo.
Non ho mai considerato quella risalita una prodezza, nemmeno una conquista.
Mi dicevo che se lo facevo anche io non doveva essere così difficile, un po' come per Graziano.
Eppure, a ripensarci oggi, questa mia capacità andava contro tutti le incapacità di cui è costellata la memoria della mia infanzia: non sapere correre veloce, tanto che Umberto, quello che mi chiedeva di mostrargli il pisello, riusciva a prendermi sempre anche quando io gli urlavo contro da lontano; non sapere andare in bicicletta; non sapere andare sui pattini; non sapere minimamente come si tocca una palla con dei movimenti che te la avvicinano e non te l'allontanavano come succedeva sempre a me, per cui quando qualcuno mi chiedeva palla io facevo sempre finta di non sentire, arrivando anche a cambiare marciapiede pur di non dover avere niente a che fare con quella maledetta di una palla che ho odiato come non mai.
Lei e tutti quelli che trovavano divertente giocarci.
Non mi esprimo sulle domeniche pomeriggio quando i maschi si mettevano avanti la tv a guardare la partita mentre le femmine di casa sparecchiavano e lavavano i piatti. Inutile dire con chi preferivo rimanere io...
Quella differenza di trattamento in base al sesso mi dava una nausea fissa che mi prende ancora adesso, immutata.Mi disgusta chi guarda la partita come potrebbe disgustarmi chi si diverte a guardare la corrida.
Capisco chi vuole giocare a pallone ma tutte quelle urla tifose per i gol di questa o quella squadra per me sono i segni tangibili di una malattia mentale e nessuno o nessuna potrà mai farmi cambiare idea.
C'è un sogno ricorrente che ho fatto anche da adulto finché ho abitato a Monteverde che cominciai a fare quando ero piccolo.
Io mi lancio dalle scale di casa, non nella tromba, come papà quando tentò il suicidio la prima volta, ma proprio sulle scale, la cui proporzione, dimensione e metratura è molto più grande che nella realtà.
Invece di cadere però, con un gesto delle reni, in una impuntatura muscolare, riesco a frenare la caduta senza evitarla ma controllandone la velocità anche se non la direzione, come fossi sopra un deltaplano, finché non riesco a raggiungere terra, posandomi con gentilezza, senza precipitare, senza cadere, senza farmi male.
Il tema di questo sogno è una mia capacità fisica, muscolare, di saper gestire la gravità, un richiamo a esplorare le mie sconosciute doti fisiche, ma anche una rielaborazione artistica del volo cinetico e disastroso che fece mio padre, quando tentò il suicidio, che non riuscì a morire solamente perché non cadde giù diretto ma rimbalzando sulle sponde della tromba delle scale.
Poi, col tempo, la mia caduta frenata poteva avvenire anche altrove, sulle montagne, nelle colline, dalla terra al mare posto alla fine di un precipizio.
Bastava non farsi prendere dal panico e io non me ne facevo prendere perché sapevo che c'era un modo, una conoscenza innata, non di testa, istintiva ecco, che mi permetteva di frenare qualsiasi caduta e atterrare dolcemente.
Dovrei rileggere il mio passato dal punto di vista di questo sogno.
Ecco che tanti eventi, piccoli e meno piccoli, acquistano un'altra luce, un altro significato, che cozza con la cornice narrativa di alessandroborzo
Con Paul Cry, che è un nome d'arte, andammo al Luneur e lo convinsi a venire con me sul Rotor sul quale ero già stato un paio di volte, da solo, dopo esserci stato la prima volta con Stefano, mamma era ancora viva, il regista amico di Patrick che mi aveva ingaggiato per scrivere la sceneggiatura del suo primo film, che non finimmo mai.
Appena il Rotor comincia a girare Paul si spaventa e io lo tranquillizzo consigliandogli di guardare al palo che c'era al centro del Rotor, quel tanto per abituarsi al repentino e continuo cambio di prospettiva. Anche a me era successo di accusare la forza centrifuga ma invece di farmi cogliere dal panico, sicuro del mio corpo avevo cercato un punto di riferimento fisso, e mi ero abituato subito.
Mi sentii al contempo orgoglioso di saper fare una cosa cha Paul non sapeva fare ma contemporaneamente un millantatore, un usurpatore. Che cosa andavo a consigliare io che con la fisicità avevo dei conti in sospeso sin dall'infanzia?
Ricordo anche, da piccolo, quando riuscivo a salire sul Tagadà di non avere mai avuto coraggio di andare al centro del gioco dove le sollecitazioni erano minime e, se avevi un buon equilibrio e prontezza di gambe, potevi rimanere in piedi agevolmente. Solo i pischelli più boni lo facevano per competere tra loro o impressionare le pischelle con le quali si accompagnavano.
Nell'estate del 92 quando tutti i pomeriggi, uscito dall'ufficio, andavo al mare, rimanendomene disteso a terra sull'asciugamano, senza lettino, a leggere o sentire la musica o dormire, mi concedevo moltissimi bagni, brevi e frequenti.
Nel pomeriggio, intorno alle cinque, in certi periodi del mese, la marea creava un punto al largo sul quale si toccava di nuovo, sarà stato a duecento metri da riva e io che non ho mai avuto alcuna tecnica nel nuoto, ci andavo, a dorso!
Ero sempre circondato da gente, nel caso avessi avuto difficoltà, e senza fretta, senza fatica, con la sola forza delle braccia le gambe le muovevo solo per scena, come avrebbe detto mamma, arrivavo alla secca, toccavo di nuovo, mi guardavo soddisfatto, e tornavo indietro, lentamente, coi miei tempi, con una tranquillità che oggi mi sorprende.
Oggi non sarei più così tranquillo e non mi azzarderei mai.
Tutte queste prodezze fisiche, prodezze per i miei standard, si capisce, me le sono sempre vissute come cose normali che facevo, senza mai riconoscermene se non la bravura, la capacità di farle.
D'altronde non potevo riconoscermene la capacità senza scalzare la cornice narrativa dell'alessandroborzo che rimaneva lì, indiscussa, presente, concreta, viva, piena di significato.
Solo oggi mi rendo conto degli effetti svilenti di quella narrazione.
Perché una cornice narrativa negativa non si limita a dirti che fai schifo ma contribuisce a non riconoscere nemmeno le volte in cui non lo fai.
Per questo mi aspetto dai film e dagli altri media degli esempi di narrazione positivi, che sostengono, incitano e non prospettano morti o destini di sofferenza, rispedendo al mittente chi vuole minare l'immaginario collettivo dei tanti e delle tante giovani che guardano certi film rimanendone irrimediabilmente corrotte.
Io sono stato fortunato perché a me i film hanno contribuito a sopravvivere alla nefasta narrazione materna che avevo incamerato senza nemmeno rendermene conto.
Non tutte le persone hanno una madre con una narrazione così deleteria come la mia, ma i film sono sempre lì, in agguato.
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