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Di là da venire



Del suo ritorno in fretta e furia in Italia, nel 42, quando la guerra cominciava a mettersi male per noi che eravamo i cattivi, nonna ebbe sempre un grande rammarico.
A Tripoli un amico di nonno le aveva  consigliato di andarsene già agli inizi del 1942, quando Rommel aveva appena sconfitto gli Inglesi, perché sapeva che la guerra per noi si metteva male.
Nonna, fascista tutta d'un pezzo, lo aveva schiaffeggiato dandogli del disfattista.
Ancora la posso vedere mentre si morde le mani, letteralmente, per non aver ascoltato il consiglio di quell'uomo ed essere rimasta fino all'autunno del 42, quando dovette rientrare a Roma in fretta e furia senza avere nemmeno il tempo né il modo di portare niente con sé.

Tornarono a Roma a bordo di un aereo tedesco camuffato da aereo ambulanza, sedute direttamente nella carlinga, mamma, che aveva sei anni, a cavalcioni di una bomba, e quando il copilota mise mano al mitra e nonna urlò dalla paura quello disse in un italiano stentato no paura no paura. 

Il filofascismo di nonna era stato devastato dagli esiti disastrosi della guerra, durante la quale aveva perso tutto, villa, cavalli, servitù e tre chili d'oro e due chili e tre quarti d'argento come ripeteva sempre quando raccontava del suo rientro precipitoso in Italia.

Mamma ebbe sempre il mal d'Africa e il fatto che Gheddafi  non le permettesse  di tornare a visitare la città in cui era nata e cresciuta la umiliava e le faceva fantasticare di un viaggio che non avrebbe mai fatto.
A un'amica che ebbe la fortuna di andare in visita a Tripoli chiese di portarle un po' di sabbia del deserto che mamma ha custodito in un sacchetto, dentro il suo cassetto speciale degli effetti personali, insieme agli ori, alla spilla d'oro di Nonna (la fede era andata a zia Nini, la figlia più grande) e chissà cos'altro.
Credo che quella sabbia la custodisca ancora mia sorella, assieme a tutti i mobili del mammausoleo sopravvissuti al trasloco, quando io mi trasferii a Montagnola, nel 1997 e lei, qualche mese dopo, nella sua casa al Torrino.

Io me ne ero andato a vivere da solo e quindi, reo di tradimento sororario, non avevo avuto diritto a niente, in linea con la pensione.

Ancora oggi, nella nuova casa post matrimoniale, mia sorella ha una piccola consolle sopra la quale ci sono gli stessi oggetti in peltro e argento proprio come li aveva sistemati nostra madre.

Un pezzetto del mammausoleo esiste ancora...

Il mio di rammarico è di non aver mai concretizzato l'idea di raccogliere oralmente i ricordi del periodo tripolitano di tutte le zie e di mamma.
Credo che ne avrei ricavato un buon libro documentale.

Ho solo ricordi sparsi dei loro racconti senza alcuna documentazione, che riguardano la vita collettiva nella villa.
Il cavallo Giorgio con una stella sulla fronte che si azzoppò e lo dovettero abbattere (il dispiacere di nonna trapelava ancora anni dopo mentre lo raccontava).
Una scimmia che faceva coppia fissa con zia Zizzi che si accompagnavano sempre, giocavano insieme e mangiavano insieme,  nonostante Zizzi fosse la zia più schifiltosa e in fissa con l'igiene, finché un giorno la scimmia era impazzita e aveva cercato di strangolare zia Zizzi che era già cianotica quando nonna se ne accorse e le tolse quelle mani semi-umane strette intorno al collo.
Nonno aveva deciso di sopprimerla con grandi pianti di zia.
E poi c'erano i quattro figli morti, tutti maschi,  uno in fasce, il secondo verso i due anni, per un frungolo nero sulla lingua, e altri due dopo i sei anni.

Nonna aveva partorito dodici volte.
Si era sposata con nonno a sedici anni e aveva avuto zia Nini a diciassette.

Nonna era nata nel 1902 e nel 1919 era ancora normale che una donna a 16 anni fosse già sposata e diventasse madre.

Questo dovrebbe dare una diversa prospettiva storica alla nostra retorica sull'infanzia e l'adolescenza visto che oggi in media ci si sposa intorno ai 30 anni (e le donne sono sempre più giovani di qualche anno) e si fanno figli e figlie ancora più in là.

Ma c'è una cosa di cui nonna non parlava mai volentieri e solo una volta me ne parlò dettagliatamente, dopo mia lunga insistenza.

In determinati periodi dell'anno nonna riceveva piccoli regali in cibo dalla mamma di Umberto, un ragazzino un po' più grande di me che mi tormentava chiedendomi sempre di mostrargli il pisello.  Nessuna richiesta omoerotica, il solito confronto patriarcale di cazzi.
Io avrò avuto otto anni Umberto già undici e il confronto sarebbe stato impari per cui mi ero sempre sottratto a quel confronto.
E' strano che io vivessi la mia incapacità a tirare fuori il mio pisello e dirgli guarda come mancanza di virilità.
Nel patriarcato il pisello non lo si dovrebbe tiare fuori davanti le donne?
Non tutte le volte che l'uomo patriarcale vorrebbe.
Per quell'eccedenza ci sono rituali codificati tra maschi.
Gli scherzi in palestra, le strizzate virili negli spogliatoi.

Chi crede di vedervi omoerotismo sotterraneo si sbaglia di grosso.
E' pura esaltazione del cazzo (nel senso letterale non denigratorio) che va celebrato tra maschi, tra portatori del membro.
Per questo ogni forma di omoerotismo è vista come un tradimento. Perchè cortocircuita tutta la costruzione fallocentrica su cui il patriarcato basa il proprio potere.
Quel cazzo che castiga donne e uomini e il cui massimo potere è quello del celibato dei preti del cattolicesimo. Quale potere più grande di chi ha il cazzo e decise di non usarlo?
Quel cazzo non può diventare oggetto di desiderio tra maschi.
E' solamente il tramite di una appartenenza comune niente più.

Una volta scopro che i regali che nonna riceve in cibo non provengono solamente dalla mamma di Umberto ma da almeno un altro paio di donne ebree del quartiere.

Quando le chiedo il perché  nonna sembra imbarazzata e la mia curiosità aumenta.
So che nonna prestava per brevi periodi piccole cifre di denaro alle vicine, cifre per le quali non chiedeva interessi.
Stiamo parlando di trenta-quarantamila lire, negli anni settanta, quel tanto che permetteva ad altre donne di arrivare a fine mese.
Nonna si riprendeva esattamente la cifra che aveva imprestato, come capita tra amici e amiche.
Al limite come segno di gratitudine acconsentiva a ricevere un paio d'etti di caffè, macinato, che all'epoca non si comprava confezionato, ma fresco, dal droghiere sotto casa.
Ma nonna era sempre attenta che quel caffè non diventasse un regalo automatico.

Chiedo a nonna se anche quel cibo sono regali di ringraziamento per i prestiti ma nonna mi dice che non è per quello ed è sempre più imbarazzata. Si limita a spiegarmi che sono regali per la festa ebraica di ...vattelapesca.

Io, che ho il sospetto facile e penso sempre male, le chiedo di dirmi di che si tratta, non sapendo cosa pensare.

Allora nonna si rassegna e mi dice, siediti. Per raccontarmi ne approfitta per fare una pausa.

Inizia a raccontarmi che il 16 ottobre del 1943, il giorno in cui i Tedeschi deportarono le persone ebree durante l'occupazione di  Roma, i rastrellamenti non si limitarono al ghetto ma anche in altri quartieri,  fra cui il nostro, Monteverde Nuovo.

C'era una famiglia di ebrei nelle vicinanze che aveva bisogno di essere nascosta, madre e figlio, la madre si era nascosta non so dove mentre nonna aveva accettato di nascondere il figlio, un ragazzino di quattordici anni.
I nazisti vengono a fare dei controlli casa per casa.
In quel momento in casa c'erano zia Maria, zia Clara, mamma, zio Giancarlo e zio Antonio.
Bussano alla porta.
Nonna va ad aprire.
C'è questo ragazzino fascista, parole sue, che non avrà avuto 18 anni, con una pistola più grande di lui, sempre parole di nonna, accompagnato da due altri uomini armati, che chiede a nonna di entrare in casa. Io lo conoscevo, mi dice nonna, e lo schiaffeggio dicendogli ma tu mi conosci, come ti permetti di dubitare della mia lealtà al fascismo?

Il ragazzino diventa rosso, non per gli schiaffi, chiede scusa a nonna e se ne va.
Nonna chiude la porta di casa e sviene tra le braccia di Zia Clara e zia Maria.

Qualcuna, ancora dopo tanti anni, si ricorda e dice a modo suo grazie.

Anche nonna e la mia famiglia fa parte dei libri di storia che riportano questi fatti, una solidarietà non comune ma diffusa, la cui memoria storica è andata persa e che invece avrebbe dovuto in qualche modo preservarsi.
Nonna mi fa capire di non essere stata la sola e che a qualcuno nel quartiere non è andata bene come a lei.
Ma ebbe sempre un grande riserbo di quei fatti.
Mi spiegò che non c'era niente di cui vantarsi. Che era stata avventata mettendo a rischio la vita sua e della sua famiglia ma che non si era mai pentita di quello che aveva fatto, che lo considerava un gesto che qualunque altra persona al suo posto avrebbe fatto.

Su questo si sbagliava.

Non dico che nonna fu un'eroa, ma sicuramente il suo fu un gesto politico, nel senso di vita nella città, che lei dava per scontato e che scontato non era, un gesto che oggi verrebbe letto solamente come gesto ideologico (come se questa lettura ideologica non fosse a sua volta ideologica).
Ma l'antifascismo è un fenomeno ben più complesso di quel che l'Italia ancora oggi si permette di dire. Mia nonna, tutta di un pezzo, quella che aveva dato del disfattista a chi le consigliava cinicamente di mollare tutto al momento brutto, aveva fatto quello che riteneva giusto non in nome di un moto dell'animo antifascista, ma perché quel ragazzino di quattordici anni non doveva finire nei campi di concentramento.
L'antifascismo prima ancora di essere anti è uno schierarsi dalla parte di ciò che è giusto e non c'era niente di giusto nelle deportazioni ebraiche.

Se invece di ridurre i rischi che abbiamo corso nelle nostre vite per fare quello che alla nostra coscienza ci sembra giusto a una questione di schieramento, come nelle tifoserie, in base a quel binario pro o contro che è alla base di tutte le perniciose semplificazioni odierne sui social e anche nel mondo reale, se invece di ridurle a posizioni per partito preso, le riconoscessimo per quello che sono, irrinunciabili posizioni etiche, politiche, umane vedremo il mondo con un occhio meno manicheo e riusciremmo a capire come alcune scelte travalicano ideologie e appartenenze, classi sociali e vissuti personali.

Il riserbo di nonna scaturiva da una dignità civile che oggi sarebbe impossibile da riportare senza essere corrotta dalla retorica, quella televisiva che, bisogna ricordare bene, non è iniziata con la televisione privata di Berlusconi, ma con tutti quei disgustosi programmi verità - che di vero non hanno nulla visto che sono organizzati per essere ripresi in tv - di Raitre, quel progetto culturale del Pci  che ha costruito un nuovo immaginario collettivo dove sentimenti e storia sono stati piegati allo spettacolo.

Se manca una memoria storica nel nostro paese è anche, certamente non solo,  perché gli unici canali di trasmissione storica (sic) sono quelli televisivi che sono votati all'intrattenimento.

Nonna vedeva benissimo i rischi di certo raccontare, anche se era ancora di là da venire, e per questo non parlava mai di certe cose.

Con me non tornò mai su quell'argomento.

Ma almeno quando arrivavano questi dolci, questo pane azzimo, non doveva più nascondermeli e anzi ammiccava con un mezzo sorriso che significava tu sai.



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