Monica, Elvira, Cecilia e i ragazzi del mucchio
Mia madre mi raccontava sempre di Mara, una sua amica d'infanzia con la quale giocava per strada, nelle stesse vie dove giocavo io, nelle vicinanze della stessa casa dove è cresciuta lei proprio come sono cresciuto io, a Monteverde nuovo.
Quando la madre di Mara la rivoleva a casa la chiamava con un lunghissimo Maaaaaaraaaaa che l'amica di mamma commentava sempre con un tutti bianchi che si riferiva al colore dei capelli che quel richiamo materno le faceva assumere.
Ho interiorizzato questo ricordo quasi fosse mio e mi sono sempre immaginato Mara come una delle ragazzine fotografate da Lewis Carrol.
Io non ho avuto amicizie femminili nell'infanzia.
Se per questo da bambino ho avuto a stento anche amicizie maschili.
Ho passato un'infanzia solitaria per una vocazione elitaria che non mi faceva mai mischiare con la folla di bambini giocanti.
Molto dipendeva dalla mia ritrosia a correre e arrampicarmi ma era anche il pregiudizio intellettuale a frenarmi. A che pro lottare per entrare letteralmente nella mischia in una competizione il cui primo premio erano ginocchia sbucciate teste sudate e maini sporche di terra?
I libri sono stati un rifugio e una scusa, come quando speri di evitare i pugni perché porti gli occhiali. Io speravo di evitare la competizione fisica perché avevo i libri, fisicamente, con me.
I miei giochi erano tutti mentali, fisici ma non atletici, e nessuno era disposto ad assecondarmi.
Quando feci fare a Graziano l'Ufo, facendolo infilare in un cartone quadrato, mentre mia sorella e Mariassunta erano gli intercettori e io ero base Luna, Elide, Elda, la curturedda, intervenne serissima dicendomi che il buffone potevo farlo io, se volevo, ma non certo suo figlio!
Se ripenso a tutte le donne stronze che ho incontrato nella mia vita c'è da meravigliarsi che non sia cresciuto misogino....
Sin dalla più tenera infanzia sono sempre stato ostracizzato dai gruppi di pari perché non mi conformavo alle loro dinamiche, perché non accettavo i ruoli precostituiti ma mi chiedevo sempre il perché delle cose.
Un po' come fa Kirk in Star Trek V, che al cospetto di dio, quando egli chiede di usare la sua astronave Kirk chiede What does God need with a starship? (Che se ne fa dio di un'astronave?).
Fare domande ti tiene fuori dai gruppi.
E io che pensavo mi tenessero fuori perché ero borzo...
Vero mamma?
Una volta, quando eravamo quasi adolescenti grandi, io e Graziano entriamo in un convento di suore che c'era nei paraggi. Mia sorella e la sua andavano a una sorta di doposcuola per ragazzine lì e noi eravamo andati a prenderle.
Graziano mi aveva proposto di fare un giro esplorativo. Io lo avevo seguito poco convinto perché di esplorare l'abitazione di un gruppo di assatanate di dio non rientrava nei miei schemi. What do I need with some nuns?
Quando arriviamo vicino alla cappelletta Graziano tira la corda di una campana esterna all'edifico, facendola suonare per un paio di volte.
Mentre una suora ci grida contro Graziano mi dice Corri! ed è già lontano. Io, che ho i riflessi di un bradipo e la ripresa di una lumaca, vengo raggiunto dalla suora prima ancora di avere praticamente iniziato a correre.
Mi ricordo che ho sento il fiato della fanatica religiosa sul collo così concretamente che all'improvviso mi fermo consegnandomi alla belva feroce rassegnato della mia fine.
Come gazzella che fugge il leone faccio schifo.
Quella, non la gazzella, la suora assatanata, prima mi dà due schiaffi che un altro po' svengo, poi mi porta in bagno per rinfrescarmi le guance vermiglie, e allora Graziano fa capolino dal suo nascondiglio e si mette a piangere perché la suora aveva menato me.
Quella gli dice di smettere di piangere se non gliene dava una ragione vera.
Avremmo avuto dodici anni io e tredici lui, ci toglievano undici mesi noi due.
Mia madre non mi ha mai torto un capello, le bastava arrabbiarsi per farmi stare male, o discuteva ferocemente, oppure mi metteva in castigo, o mi prendeva in giro, come quando mi convinceva a vincere la mia paura del buio avventurandomici e poi, sul più bello, farmi booo!, così io strillavo come una gallina sgozzata tornando di corsa verso la luce, dove c'era anche lei, che rideva con tutto il corpo, così sganasciata da doversi mettere una mano davanti la bocca mentre petto e fianchi erano scossi da una risata che la spanciava tutta.
Quanto detestavo correre verso di lei, sarei voluto correre lontano da lei piuttosto, ma l'unica direzione alternativa a mia madre era il buio...
Ma guarda che mamma doveva capitarmi, coi baffi.
In prima media in classe c'erano tre compagne ripetenti, già nella piena adolescenza, che per me arriverà soltanto in terza.
Elvira era molto pacata e tranquilla, lei è quella del commento che mi fece sprofondare dalla vergogna, quando, dinanzi la mia totale immobilità all'invito del prof. di ginnastica a schiacciare, disse poverino forse non sa giocare.
E' vero Elvira, non ho mai nemmeno saputo cosa fosse la pallavolo, figuriamoci fare una schiacciata.
Poi c'era Monica, molto indipendente e già alla ricerca di una tresca coi ragazzi.
Michele una volta si era messo la scopa a mo' di pisello chiedendole Ruscitttttiiii, te basta?
Una volta che eravamo andati a villa Pamphili io preferii andare in giro con loro due piuttosto che stare appresso ai miei co-genere che ancora sgambettavano come infanti.
Mi ricordo che quando Monica vide alcuni ragazzi giocare a pallone commentò con Elvira ammazza che boni.
Io mi sorpresi nel sentire quell'aggettivo usato al maschile, che pensavo fosse lecito usare solamente al femminile, era la prima volta che mi capitava.
Se Monica poteva dire che quei ragazzi erano boni allora potevo dirlo anche io.
Al solo nominare dei ragazzi boni, senza vederli, al solo nominali, fui sommerso da un'ondata ormonale di desiderio così forte che dovetti reggermi all'albero da dietro il quale Monica ed Elvira stavano guardando i ragazzi giocare.
E poi c'era Cecilia, che una volta mi rubò il cappello e quando le chiesi di restituirmelo lei se lo mise in borsa dicendo che ormai era suo e dinanzi le mie proteste mi sfottè dicendomi Che succede se torni a casa senza cappello? Tua mamma si arrabbia?
Mi sorprese la gratuità di quella sua cattiveria che faceva solo perché poteva farla. Cioè prima mi sorprese che lei sapeva mamma si sarebbe arrabbiata poi mi sorpresi del resto.
Un sopruso al quale mi sottrassi subito, smettendo di chiederle il cappello. Meglio perderlo che continuare a darle il potere di sfottermi.
Quando le voltai le spalle e mi incamminai verso l'uscita della classe mi richiamò un po' mortificata e me lo restituì con un sorriso strano sulle labbra.
Cecilia mi ha portato via l'innocenza.
Da allora ho sempre avuto paura che chiunque mi possa fare qualche dispetto perché sono uno al quale si possono fare. La mia permalosaggine si è alimentata su questa delusione.
Coi ragazzi di classe ho legato solamente con quelli coi quali condividevo il banco gli altri non li ho mai presi nemmeno in considerazione.
Era la mia ritrosia a tenerli lontani, oggi lo so, all'epoca mi dicevo che se nessuno si avvicinava era perché non ero interessante mica perché io non mostravo interesse io.
Mostrare interesse voleva dire interagire e se interagivo dovevo scoprire le mie carte che erano tutte sbilanciate dal punto di vista verbale, orale, pompini compresi, e non dal versante fisico che all'epoca era l'uno linguaggio che i mei pari sembravano conoscere.
Pugni e cazzotti mentre io preferivo parole e cazzi semmai.
C'era Flavio, che era stato il mio primo compagno di banco, col quale condividevo la passione per le scienze e la tecnologia.
Se in terza non fosse arrivato Andrea, che veniva da un'altra classe, probabilmente sarebbe stato lui il mio primo ragazzo. Almeno credo.
Ho sempre avuto la tendenza a provarci con tutti i ragazzi che trovavo belli. Se nasceva un'amicizia con loro l'innamoramento, cotta, infatuazione, erano inevitabili.
Una delle più grandi eccitazioni per me era avere a disposizione tutti i ragazzi che mi apicevano. Più erano etero meno si aspettavano mia mano sul pacco, più raramente sul culo, e in un modo o nell'altro ci stavano sempre tutti. Non mi riferisco a mie particolari doti di seduttore, anche se lo sono stato, mio malgrado. Mi riferisco a quella voglia di sesso repressa per via della segregazione dei generi e per via di quella certa curiosità che nasce da ogni interdizione, da ogni tabù.
Io ho sempre pensato che se mi proponevo di prenderglielo in bocca un etero non mi avrebbe mai detto di no. Solo oggi ho capito che magari molti si sarebbero convinti di più se avessi fatto la proposta contraria.
Con Flavio non siamo mai scesi a nessuna intimità, mi ricordo che diffidavo di me stesso, sapevo che avrei potuto invaghirmi di lui ma volevo un amico non uno per cui spasimare. E poi Flavio aveva un naso brutto. Quindi...
Così parlavamo di programmi scientifici in tv, di Piero Angela, di tecnologia, il padre gli aveva comprato il videoregistratore che all'epoca, 1977, era un oggetto d'avanguardia tecnologica.
Quando me lo comprerà mia madre, nel 1986, per l'università (studiavo cinema), costava ancora parecchio.
Flavio era molto riservato e il suo aprirsi con me, lento ma costante, fu un modo speciale di sancire la nostra amicizia. Un'amicizia asessuata, senza riferimenti ai nostri sconvolgimenti ormonali, nessuna domanda all'Andrea (spermi?).
Poi in seconda cambiai di banco e stetti con Aldo un ragazzone sovrappeso e un po' stupido, per me brutto, cioè non sessualmente desiderabile, quindi amico perfetto, che frequentai senza grande convinzione, per pigrizia e passività.
Quando andammo a vedere Guerre Stellari lui si mise seduto tra mia madre e me, rovinandomi tutta la proiezione perché avrei voluto stare io seduto vicino mia madre.
Sarebbe bastato chiederlo ma io non esprimevo mai i miei desideri, avevo sempre paura di tradire qualche debolezza o fare qualche figuraccia, o, come mi ricorderebbe Antonella, di ricevere un no. Quindi rimasi in silenzio mi chiedo se per non mostrarmi mammone agli occhi di Flavio e di mai madre, oppure agli occhi miei.
La risposta è chiara.
Di Guerre stellari mi è rimasta la delusione, dopo la scena d'apertura capolavoro in astronave, di tutte le scene ambientate su di un pianeta, che è sempre la Terra camuffata, per cui che fantascienza è?
Senza le astronavi e lo spazio che fantascienza è?
Non mi cimentai mai in giochi di forza coi miei co-genere.
Quelle rare volte che provai a gettarmi nella mischia della pugna fu in una rissa tra Mario, un ragazzino attaccabrighe in realtà molto più leale e tranquillo di Cecilia, e un altro ragazzo.
Mario era riverso sopra questo ragazzo che rimaneva sotto alquanto inerme. Io per sperimentarmi nella zuffa, mi provai a dargli un paio di pugni, sulla schiena, visto che Mario continuava a stare tutto sopra altro ragazzo. Mario si girò come gli avessi inferto una staffilata e se ne lamentò subito dicendo che ero stato sleale nella schiena mi dà i pugni, nella schiena! mentre il professore di religione, laico, barbuto, ci guardava divertito senza intervenire né commentare.
Io mi vergognai non tanto di essere stato sleale quanto del fatto che quei miei pugni inopportuni dimostrassero che non sapevo fare a pugni come tutti i maschi dovrebbero saper fare.
Ho sempre creduto che il linguaggio corporeo fosse spontaneo, dato dal proprio corpo sessuato (nel senso di genere) e che se a me certe cose non mi venivano spontanee voleva dire che non ero maschio.
Questo non ha mai cortocircuitato col mio orientamento sessuale, io non mi sono mai sentito maschio non perché succhiavo cazzi ma perché non sapevo fare a pugni.
Quando Mario scoprì che avevo visto Guerre Stellari condivise il suo entusiasmo con me e lì capii che era un ragazzino tutt'altro che violento, bisognoso di considerazione e che l'aggressività era la sua coperta di Linus, come la mia erano i libri.
Avrei potuto chiedere a lui di insegnarmi tutto quello che sapeva sui pugni ma io non chiedo mai.
Non pensavo si potesse chiedere.
Buffo, no?
Poi in terzo è arrivato Andrea e la classe divenne il teatro della nostra fantasia.
L'insegnante di religione del terzo era una signora anziana, minuta, che si disperava che la nostra classe fosse composta da ragazzini ancora così immaturi.
Ce lo confidò una volta che io e Andrea la andammo a trovare a casa, e lei mentre ci serviva una fetta di ciambellone si lamentava di non poter parlare di argomenti seri come la masturbazione, e noi che a sentire quella parola pronunciate da lei quasi ci strozziamo con lo zucchero a velo col quale aveva condito la fetta di ciambellone che ci aveva servito...
Io e Andrea la sfottemmo per tutto il resto dell'anno scolastico, immaginandoci che a lezione lei chiamasse alla cattedra Franzil, il ragazzo più bello di classe, dicendo e ora parliamo di educazione sessuale. Franzil vieni qui e voi portate un separè!
In realtà eravamo noi due a voler rimanere appartati con Davide, che però non ci si filava mai.
Andrea fu il mio primo vero amico, dopo Flavio, che si era dimenticato presto di me.
Che Andrea diventasse il mio ragazzo fu l'evoluzione più coerente della nostra amicizia. Però devo dire che Andrea l'ho trovato bello solamente dopo essermene innamorato, prima non era né brutto né bello, con quel viso tondeggiante che arrossiva facilmente.
Nel 2000, una volta che stavo andando a casa di Daniele, invece di passare dal portone principale del complesso residenziale dove abitava provai a entrare dal un cancello di servizio che spesso era chiuso. In quei casi o tornavi indietro al cancello principale o scavalcavi il cancello chiuso.
Era facile da fare per chi aveva un minimo di coordinazione.
Io ne ero totalmente sprovvisto ma decido di provarci lo stesso così mi impappino e rimango sospeso sul cancello a metà della scavalcata incapace di proseguire e di tornare indietro.
In quel momento sento la voce di un ragazzino che non vedo perché girarmi di 180 gradi per vederlo mi farebbe caracollare a terra, che mi suggerisce muovi prima il piede sinistro del destro, vedrai che così più facile.
Seguo il suo consiglio e un secondo dopo supero il cancello. Ora che sono dall'altra parte posso guardarlo agevolmente, è un ragazzino bellissimo, di non più di 12 anni, che mi sorride e col quale, fossimo coetanei, potrei giocare.
Pieno di gratitudine lo ringrazio e gli chiedo come si chiama. Francesco, mi fa, E tu? Alessandro.
Da allora ci siamo sempre salutati ogni volta che ci incontravamo con la naturalezza dei pari.
Ancora oggi se devo scavalcare un cancello ripenso al suo insegnamento.
D'altronde se io potevo fare da padre a mio padre, un ragazzino poteva fare da padre a me, almeno nello scavalcamento dei cancelli, no?
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