La ginecrazia non contempla né mia madre né mia sorella
Mi sono sempre riferito alla Ginecrazia come all'insieme di tutte le donne della mia famiglia, mamma e mia sorella comprese.
Da quando tengo questo diario mi sono pian piano reso conto invece che della Ginecrazia mamma e Silvia non facevano propriamente parte. Mia sorella perché troppo piccola, mia madre perché assente.
La Ginecrazia funzionava in autonomia da mia madre, potrei anzi dire che c'era Ginecrazia nella misura in cui mia madre non c'era.
Anche i miei ricordi confermano questa interpretazione.
La Ginecrazia era un consesso di donne, di figlie, tante, e di una madre, vedova, nonno era morto pochi mesi dopo la mia nascita, che si incontravano nella casa materna che era stata la loro casa fino a quando non si erano sposate.
Quando la famiglia di mia madre ritornò di corsa in italia, nel 1942, dalla Libia, dove viveva in quel di Bengasi, prima, e Tripoli poi, nonno andò a Milano, prima che diventasse repubblica di Salò, con le due figlie più grandi Nini e Zizzi, mentre nonna rimase a Roma con Clara, Liliana, Maria e mamma e i due figli Antonio e Giancarlo.
In quella che è stata la casa in cui sono cresciuto, dormivano otto persone, mamma in corridoio, quello dove metterò la libreria ai tempi del mammausoleo, Liliana con nonna, Clara e Maria insieme nel tinello, che sarà camera mia, e Giancarlo e Antonio in quella che nella mia era sarà la camera da pranzo.
Cui si aggiunsero, dopo la fine della guerra, Nonno e le due zie maggiori.
Ecco che l'emancipazione data dal matrimonio acquisisce in quella casa affollata un significato altro.
Tornare in quella casa per le mie zie doveva essere un vero ritorno chez elle e la presenza mia e di mia sorella, e dunque di mia madre, una sorta di intrusione.
Le mie zie non tornavano a visitare loro madre nella sua casa, in quella casa ritrovavano la propria giovinezza.
Non ho memoria della presenza di mia madre quando le zie venivano a trovare nonna.
Ho sempre pensato che anche se mamma c'era la sua presenza veniva messa tra parentesi da quella delle zie.
Se però non ho ricordo alcuno di mamma che presenzia a quelle visite e partecipa agli annessi rituali vuol dire che, almeno simbolicamente, mia madre non c'era.
Non faceva parte della ginecrazia alla quale avevo accesso persino io.
Forse le zie venivano in uno dei pomeriggi quando mamma faceva gli straordinari, anche se mi pare strano.
Forse mamma si sentiva in colpa a sottrarre la madre alle sue sorelle e la sua assenza era il suo piccolo tentativo di restituire loro un po' di quel tempo che nonna non passava con loro, intenta com'era a crescere mia sorella e me.
Tutte le zie avevano figli e figlie che nonna l'avevano vista molto poco...
Se mia madre non si fosse separata mi chiedo come sarebbe stata la vita di nonna. Se avrebbe mantenuto quella casa che, da sola, sarebbe stata vuota ed enorme, e come si sarebbe comunque barcamenata con il nipotame. Come si sarebbe potuta dividere equamente nel crescere Giorgio, Sonia, Paola, Roberto, Andrea, Paolo, Giuliana e Carla, Irene e Antonio, Manuela e suo fratello, Letizia e Marika e la sorella e noi.
Non avrebbe mai potuto, avrebbe sempre finito col trascurare qualche nipote, o avrebbe vissuto nomade ora in casa di una figlia ora di un'altra senza magari avere una casa sola visto che, da sola, la sua pensione di vedova non le permetteva certo di vivere.
La soluzione di crescere solamente Alessandro e Silvia e di vivere con la sua figlia separata Mirella fu una soluzione elegante che discontentava tutte allo stesso modo e permetteva a nonna di rimanere nella casa dove anche lei aveva vissuto col marito in autonomia dalla figlia che era sempre fuori a lavorare.
Io ero troppo piccolo per poter stabilire confini certi tra la paranoia di mia madre e la verità fattuale dell'ostilità delle zie.
Anche se non il pomeriggio mia madre doveva essere presente almeno alle cene, ma io non ho il menomo ricordo della sua presenza nemmeno a quelle.
Ricordo la presenza di Zia Clara, costante, quella di zia Zizzi, altrettanto frequente, e anche di Zia Nini la cui presenza, però, abitando zia vicino a casa nostra, era al contempo più capillare e meno concentrata.
Le zie venivano presto nel pomeriggio e non tornavano a casa mai troppo tardi perché altrimenti i mariti si lamentavano.
Era chiaro che i miei zii non avevano il potere di impedire loro di venire a trovare nonna, quelle cene fredde e spaiate cui si sottoponevano ne erano la prova.
Sapere cosa le zie avevano lasciato in cucina di pronto per loro mariti non avvezzi a cucinarsi e incapaci di districarsi tra i fuochi donneschi della cucina faceva parte del rito di quelle visite ginecratiche.
Per loro ogni visita costituiva una vacanza dal patriarcato, dal dovere verso i mariti, era un piccolo sciopero nel quale i mariti dovevano barcamenarsi senza le donne che stavano tutte a casa mia.
Unico maschio ammesso al desco muliebre.
Solo zia Maria non si allineava a questa sospensione momentanea del patriarcato, il marito siciliano, maschilista come un talebano, costituiva un'ottima scusa per non venire, ma era lei troppo snob per mischiarsi con le altre sorelle del mucchio. Zia Liliana essendo la zia proletaria che doveva mantenere i due figlie le due figlie con un marito delinquente la picchiava) in pensione, non le permetteva di partecipare ai deschi ginecratici ma lei era assente giustificata a differenza da Zia Maria la cui velleità snob ricorda tanto da vicino quelle di mia sorella.
Lo scoprirò a mie spese quando, morta mamma e promessimi i soldi per comperare i libri dell'università, quel rimborso spese diventava un calvario di visite e torna il mese prossimo che adesso i soldi non li ho tanto che avevo smesso di chiederglieli.
Certo l'assenza di zia Maria poteva essere tranquillamente la dimostrazione di un dissenso fraterno (sic) - l'italiano non contempla per l'aggettivo un femminile sulla radice latina soror come per sorella, e sorerno non sembra nemmeno una parola - alla sistemazione di mamma e di me e mia sorella a casa di nonna.
Chissà.
Durante le visite della ginecrazia, nei pomeriggi di inverno bui e freddi, nonna preparava il te con le noccioline tostate. Le arachidi venivano sbucciate e abbruschiate in un pentolino di alluminio fino a raggiungere un colore marrone scuro, quasi nero.
Poi venivano messe in un bicchiere trasparente, quello della classica foglietta romana, pieno di te scuro e forte che, a seconda dei gusti, veniva zuccherato o meno. Le arachidi vi galleggiavano e finivano nel fondo del bicchiere e le mangiavi mentre bevevi il te o raccogliendole col cucchiaino.
Io amavo berlo con poco zucchero per sentire l'amaro delle arachidi abbruschiate e il sapore tannico del te.
Era una usanza, quella, che avevano appreso a Tripoli,e che avevano mantenuto anche a Roma, che a me evocava una tradizione di sororanza d'altri luoghi ma del presente.
Per loro dove essere una celebrazione del passato, quando erano insieme, ricche e non sposate.
La mia famiglia era benestante e con la guerra aveva perso tutto.
Vivevano in una villa con dodici stanze, la servitù, due cuochi, quattro balie una tenuta di diversi acri con animali da orto e cavalli, struzzi e scimmie.
Una vita talmente diversa da quella piccolo borghese di impiegate ministeriali, le mie zie lavoravano tutte a un ministero, e avevano continuano a farlo anche da sposate così da mantenere una certa autonomia economica, a differenza di Zia Nini e zia Zizzi che erano state a Salò con nonno.
Durante quei pomeriggi in cucina si rideva e si scherzava e c'era sempre una parola di elogio, una carezza in più per me e mia sorella.
Come cape di villaggi vicini in quella cucina le donne si informavano sui rispettivi mariti, raccontavano nonna le loro disavventure, la loro salute medica.
Zia Zizzi si riferiva a una situazione complicata col marito e la suocera della quale mi sfuggivano le implicazioni più profonde, perché ero piccolo e perché non conoscevo i dettagli di una storia troppo dolorosa per essere ridetta, tanto non ce n'era bisogno.
Per quel che ne capivo la severità di zio Loris (che una volta Silvia da bambina, non ricordandone il nome esotico lo aveva chiamato zio zizzo) sostenuta dalla suocera avevano causato a zia profondi turbamenti e forse anche qualche crisi di nervi.
Io ero grato di poter assistere a quelle riunioni, di essere accettato come una sorella, femmina per simpatia, donna per solidarietà.
In quegli incontri ho imparato la convivialità tra donne, la libertà garrula cui le donne si concedono in assenza del maschio, la sororanza di condividere dettagli del loro corpo femminile, mestruato e coi seni.
Così quando Zia Clara doveva raccontare alla madre di una infezione che aveva avuto alla vagina, non sapendo che parola usare davanti a me, optò, dopo una breve esitazione, per la parola natura che è un nome della fica, della fregna, della patonza... e non mi fate tirar giù tutti i nomi come un novello Belli, bernarda, ciccia coi baffi, patata, come piaceva chiamarla a mamma.
Non tutti i racconti erano così leggiadri.
Una volta Zia Clara confessò a nonna una molestia sessuale che aveva subito nonostante fosse al cinema col marito, mio zio, nonché mio padrino, Gaetano.
Erano andati all'Eurcine quando un vicino di posto le aveva iniziato a infilare le mani sotto la camicetta. Zia Clara era rimasta immobile perché temeva la reazione di zio, così, quello, indisturbato era arrivato a sganciarle il reggiseno.
Zia Clara era in lacrime mentre raccontava a nonna l'umiliazione e la rabbia per l'aggressione di quell'uomo della quale si era costretta a rimanere in silenzio perché se Gaetano se ne fosse accorto lo avrebbe ammazzato spiegò in singhiozzi a nonna.
Io avrò avuto 10 anni, non di più, eppure era chiaro persino a me quanto zia fosse stata vittima di due maschi, il vicino di posto che le aveva slacciato il reggiseno e mio zio Gaetano, uso a una violenza così animosa da non essere utile nemmeno in caso di pericolo.
Capii quanto ero stato fortunato a non crescere con mio padre, o con un altro uomo che mamma poteva scegliere di tenersi accanto.
Non che la severità di mia madre non fosse devastante per me, ma le mancava del tutto quella violenza omertosa, impunita e omicida che sosteneva ogni comportamento del maschio.
Vorrei scrivere che mi avvicinai a zia e la abbracciai invece mi ritrassi perché dopo tutto anche io ero un maschio, mio malgrado.
Quando zia mi vide turbato si scusò cercò di rallegrarsi per tranquillizzarmi, vedi, zia non piange più.
Una tutela nei miei confronti che ho scoperto in molte donne, mai in mia madre.
All'epoca io giocavo con il pongo colorato, facevo omini, automobiline, ma mi divertivo anche a creare piccoli ortaggi in scala, cetrioli, peperoni, angurie, pesche, con tutti i loro dettagli.
Mentre mostravo a nonna la fatica delle mie mani brandendo il pongo Silvia passava veloce e improvvisa quanto io ero lento e flemmatico morsicando un pezzo del cetriolo o del peperone, lasciandomene in mano un timido moncherino.
Così una sera che zia Zizzi accompagna Silvia in bagno per fare la cacca, zia strilla all'improvviso allarmantissima Silvia ha fatto la cacca rossaaaaaa e io la tranquillizzo dicendole del pongo.
Silvia era una fachiro, mangiava di tutto, anche quello poco commestibile. Succhiava i batuffoli di cotone imbibiti di alcool denaturato che la signora Pompili usava prima di farci le intramuscolari (c'era sempre qualcuna di noi bisognosa di iniezioni), staccava ampi pezzi di carta da parati succhiandone l'intonaco che rimaneva loro attaccato.
Una volta che mamma, insospettita dall'improvviso silenzio, mi incarica di andare a vedere cosa mia sorella stava combinando, la vedo placida a letto, con diversi pezzi di carta da parati e intonaco infilati tra le dita del piede che everynow and then si portava alla bocca con l'ausilio della mano, rimanendo a succhiare l'intonaco come fosse un elisir prelibato...
Evidentemente avevo bisogno del calcio, si schermirà mia sorella mando racconto questo aneddoto, trasformando un ricordo buffo in occasione per lamentarsi dei suoi bisogni non soddisfatti.
Quando tutte in cucina non ci entravamo, nonna apparecchiava in camera da pranzo e allora era davvero una festa, una cena di natale, un'occasione speciale, col servizio buono, i bicchieri col bordino d'oro e quel vino liquoroso al marsala che a me piaceva tanto e che mi veniva centellinato per ovvi motivi alcoolici.
A cena si mangiava sempre pizza, fatta da nonna, impasto compreso, quella ripiena con le verdure e quella al pomodoro cui facevano pendant le pizzette friabili e bianche fritte in un pentolino che grazie al lievito si gonfiavano diventando enormi. Ne eravamo tutte golose, ma io di più.
Una domenica al mese circa nonna preparava il cuscus, dalla sera prima.
Mandava me a comperare il semolone, col quale incocciava il cuscus bagnando il semolone generosamente versato in una terrina con alcune ditate di acqua tiepida e sale, e poi con un gesto circolare delle dita otteneva dei grani, meno fini di quelli del cuscus preconfezionato che si trova oggi in commercio.
Nonna cominciava a incocciare il cuscus prima di Carosello e continuava fino all'una. A me era concesso stare a guardare eccezionalmente fino alle undici di sera. Poi dovevo andare a dormire. L'indomani mattina, mentre preparava il sugo, per il quale ogni singola verdura veniva soffritta a parte e poi aggiunta, non come me che metto tutte le verdure insieme per risparmiare tempo, nonna cuoceva il cuscus, che era rimasto tutta la notta a susere, al vapore, su due enormi colapasta, uno di plastica bianca, l'altro di alluminio.
Io venivo in cucina per guadagnare la mia scodellina col cuscus appena cotto, o semicrudo, condito con un po' di burro che nonna mi preparava, incapace di dirmi di no quando si trattava di assaggiare i piatti che stava cucinando.
Per esempio all'epoca il ragù mi disgustava e, quando preparava le lasagne, nonna lasciava sempre un angolo di teglia con due porzioni abbondanti per un adulto, figuriamoci per un bambino di otto anni, condite con un sugo senza carne...
Se la Ginecrazia è il mio mito fondato non può farne parte la persona che, assieme mia sorella, ha più cercato di sabotare e mie potenzialità, tarpandomi le ali.
La Ginecrazia è nonna che mi passa i soldi per andare a vedere Ornella Vanoni al teatro Sistina, mentre mia madre si vedrà bene dal portarmi con lei e Silvia a vedere Renato Zero.
La Ginecrazia è nonna che mi vizia assecondando i mie capricci alimentari mentre sono io che mi preoccupavo dei suoi pranzi, non certo mia sorella, talmente insofferente da considerare quelle paste e quelle fettine che le preparavo come una schiavitù da rifuggire nemmeno mia sorella fosse il popolo eletto.
La Ginecrazia è la femminilità quella altra, quella di Zia Clara che mi solleva di peso, facendo uno sforzo enorme, quando a 10 anni piangevo disperato per l'ennesimo scontro con mamma su questioni scientifiche che venivano sempre frustrate in nome dell'ignoranza che sfiorava pericolosamente l'oscurantismo.
La Ginecrazia è un modo di vivere l'essere donna che non è quello di mia madre né quello di mia sorella.
La Ginecrazia sono le donne non stronze.
Mia madre e mia sorella no.
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