Zia Nini
Ci capitava spesso a me e ad Andrea di tornare a Ciciliano, coi miei.
Per un senso di dissimulazione contingente ci muovevano in quegli spazi senza tradire le esperienze che avevamo fatto quando lì ci andavamo da soli.
Oggi non riesco più a stare in un luogo dove è successo qualcosa di significante per me senza esserne comunque in qualche modo influenzato, anche solo emotivamente.
Subito dopo la fine della mia storia con Daniele a tornare alla sua casa in campagna con gli stessi amici di prima e il suo nuovo compagno mi sembrava di essere lo Zar che tornava a visitare, da turista, il palazzo d'inverno, trasformato ormai in museo.
Come non piangere davanti al trono sul quale mi ero seduto tante volte che adesso era vuoto e una transenna impediva di sedervisi?
Allora invece riuscivo a passare davanti al letto, ad andare al bagno, a sedermi nella sedia in cucina senza che quei luoghi evocassero tutto l'amore che avevamo consumato, tutti i baci che ci eravamo dati, il batticuore in cima al quale io spiavo Andrea senza che se ne accorgesse, tutti i pampini e tutto il sesso insertivo, macchinoso e complicato e coi tuoni bipartenti.
Tanto ci saremmo tornati, lo avremmo rifatto, il motivo di tanta sicumera era quello.
Quei luoghi non dicevano ei fù ma ci sarà di nuovo, al più presto, ovunque sia, non temere.
E infatti non temevamo.
Così ci si poteva vedere per le vie del paese curiosi, alacri esploratori, come quando disegnammo il sentiero, con tanto di bussola e binocolo, che curvava sul fianco della collina, che dal paese scendeva a valle.
Ci si poteva vedere di notte a osservare le stelle e a volte qualche mano audace si azzardava a un contato fisico sfacciato.
Oppure ci si vedeva distratti passeggiatori che discutono di tutto ignari di chi ci ascoltava o guardava.
Un pomeriggio ci eravamo seduti su di una panchina in una piazzetta subito prima dell'imbocco per la rocca dalla quale partiva il sentiero che scendeva a valle.
Non so più né come né perché stavo spiegando ad Andrea il mio albero parentale districandomi tra Zizzi e Giancarli e relativo sottobosco di cugini, cugine e cugini nipoti con alacre impegno, come stessi aiutando Andrea a ripassare i nomi dell'esame di anatomia.
Quando giunsi a Zia Nini e ai cugini Giorgio e Sonia, quest'ultima che era anche la mia madrina, all'improvviso scorgo dietro una persiana chiusa di una casa di fronte a noi la presenza ombrosa di qualcuna, una cicilianese che ci stava ascoltando chissà da quando e che ora conosceva a menadito il mio albero parentale.
Senza farmi notare informai Andrea della spiona e Andrea si prefigurò la signora che raccontava alle altre cicilianesi tutto quello che aveva sentito e poi c'è Zia Liliana e zia Maria...
Ne ridemmo, molto, e quell'episodio entrò anche nella nostra lingua codice.
Quando ci telefonavamo per comunicarci le disponibilità delle rispettive case la cui assenza del genitorume le trasformava in accoglienti nidi d'amore, usavamo il telefono fisso (siamo nel 1980) e spesso non eravamo liberi di parlare soprattutto se dovevamo dire, guarda ho casa libera dalle 16 alle 19, non vedo l'ora di spogliarti, perché le nostre telefonate erano ascoltate.
Zia Nini ci aiutava nel comunicare che non potevamo parlare liberamente perché c'erano orecchie indiscrete. Ci bastava dire ieri ho visto Zia Nini oppure ma poi Zia Nini l'hai sentita? per chiarire se potevamo parlare liberamente o no.
Così, loro malgrado, e senza mai saperlo, anche Zia Nini fu Galeotta e anche l'anonima ascoltatrice di Ciciliano che aveva sentito quasi tutto sulle mie zie finché su quella panchina quel giorno più non ne avevamo detto avante.
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