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Tecnicamente dolce



Tarda primavera del 1982.
In tv un trailer mi incuriosisce. E' quello di Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni.
Mi incuriosisce una scena nella quale il protagonista racconta al nipote di un asteroide trasformato in astronave con la quale avvicinarsi al sole per studiarlo...
Tanto basta per andare a vedere il film.
In realtà la scena del trailer è tutta la fantascienza che c'è nel film, che però non mi delude perché racconta una storia, squisitamente etero, che non segue i classici canoni del patriarcato.

Di Antonioni avevo già visto Zabriskie Point, a un cineforum al quale ero andato appositamente perché del film avevo visto la sceneggiatura pubblicata da Cappelli, che scoprii una mattina in biblioteca dove ero andato facendo sega da scuola…, nella quale cerano molte foto anche della scena nella Death Valley,  nel luogo che dà il titolo al film, dove c'erano molti uomini nudi e donne nude.

La curiosità non era per i nudi in sé non capivo che diavolo ci facesse una schiera di giovanotti e di giovanotte  a fare l'amore nel canyon.

Zabriskie Point fu una folgorazione.
Non solamente per il film di per sé, che è tra i 10 film più importanti al mondo, ma perché dava finalmente un volto e un titolo a una scena cui avevo assistito  quando ero un bambino.

All'uscita di ZP,  mandarono in onda, in tv, un estratto della famosa scena dell'esplosione della villa, nella quale si vede al rallentatore esplodere un televisore, un frigorifero, uno stand appendiabiti ricolmo di vestiti.
Ripresi al rallentatore, fluttuano nell'aere come in una una danza.
La Sigla di The Good Fight non si è inventata niente.

Io avrò avuto cinque anni (il film è del 69 ma in Italia uscì nel 1970, tant'è che sulla rete siti anche blasonati come mymovie riportano il 70 come data di produzione, che è un errore) e quelle esplosioni mi eccitarono con una potenza quasi sessuale. Da un lato non ne capivo il perché narrativo, che cosa  quelle esplosioni al rallentatore dicevano. Dall'altro mi seducevano irrimediabilmente.

Non crediate che questo commento sia dell'Alessandro adulto.
Era davvero dell'Alessandro di allora che già si districava nei codici narrativi dei film.
Quando nel 1974 riuscì in sala 2011 Odissea nello spazio di Kubrick Zia Clara e suo marito, zio Gaetano, che era anche mio padrino, mi portarono a vederlo al cinema. Durante la lunghissima sequenza di allunaggio dell'astronave-palla che porta Floyd sulla Luna, nella quale ci Vine mostrata  tutta la discesa della piattaforma nelle viscere della Luna,  io credevo non stare capendo quello che accadeva. Sapevo che le immagini in movimento raccontano sempre qualcosa, e siccome per me lì non stava succedendo nulla mi dissi che ero io che non riuscivo a capire il racconto.

In realtà in quella scena non c'è racconto ma pura descrizione, un'apoteosi tecnologica, sia quella nel film, l'uomo che ha raggiunto la Luna e vi ha costruito piattaforme di atterraggio, sia quella del film, che mostrava in una sequenza composita modellini e inserti cinematografici (ogni singola finestra con dietro gente che si muove è in realtà un ripresa a sé inserita in fase di post-produzione in quella inquadratura coi modellini) con una precisone e un realismo mai eguagliati (e gli effetti speciali del film erano tutti analogici).
Non ero un genio, ero solamente uno spettatore consapevole delle convezioni narrative tra film e pubblico.

Tornando alle esplosioni di Zabriskie Point ero affascinato da quelle deflagrazioni che mostravano l'interno delle cose (ricordo la scocca metallica dell'altoparlante del televisore, fatto esplodere mentre era acceso) e che distruggevano le cose riportandole ai loro componenti elementari.

Da piccolo ero incuriosito  dall'interno degli oggetti, mi piaceva aprirli, separarne i componenti, per vedere come erano fatti dentro.
Non mi si poteva regalare un giocattolo senza che lo aprissi.
Una delle mia pubblicità preferite di allora era quella dell’Arrigoni, nella quale uno scettico, una scettica, lasciato da solo, da sola, con il marchingegno elettrico che aveva chiesto di vedere, del quale il commesso del negozio che lo vendeva aveva appena finito di decantare i pregi, cominciava a manometterlo fino al ritorno del commesso il quale, sbigottito di fronte al marchingegno smontato, balbettava: “Ma che fa? Lo ha aperto?!?!” Al che lo scettico, la scettica,  rispondeva col claim della pubblicità: “Certo. A scatola chiusa compro solo Arrigoni”.

Ecco, questa curiosità dello smontare, del vedere cosa c’è dentro, di capire come funzionano gli ingranaggi (inutile dire che le scene nella catena di montaggio di Tempi moderni di Chaplin erano il mio vangelo) che io reputavo un poco morbosa veniva pubblicamente riconosciuta da quel cinetoscopio che andava in mille pezzi, da quel telaio di altoparlante che vorticava al rallentatore verso lo spettatore nella sequenza di Zabriskie Point.
Mi ricordo come fosse ieri l’eccitazione quasi sessuale di scoprire che qualcun altro, molto più grande e più bravo di me, aveva le mie stesse curiosità, la mia stessa morbosità, lo stesso larvato luddismo che mi portavo dietro, ieri come oggi (ah che piacere vedere le astronavi della Federazione andare in mille pezzi!!!!).
All’epoca non colsi il titolo del film né il suo regista.

Così quando andai a questo cineforum, pieno di grandi (io avrò avuto 15 anni) per vedere i nudi di Zabriskie Point e ritrovai le esplosioni fu come tuffarmi nella mia prima infanzia, ritrovare me stesso, ricongiungermi al bambino che ero stato.

Da quel momento Antonioni divenne un nome di interesse, così quando a Porta Portese  trovai la sceneggiatura di un film che non ha mai realizzato, Tecnicamente dolce, pubblicata da Einaudi, la comprai e me la lessi tutta di un fiato, invece di fare i compiti per scuola.

Quando,  all'università, Guido Aristarco dedicherà il corso monografico a Michelangelo Antonioni dandoci da leggere anche Tecnicamente dolce, che era già difficile da trovare allora, io ritrovavo un amico, un pezzo della mia storia, e sentivo che quello che facevo nella mia vita aveva un senso.

Anche adesso, per dire, abito, ancora per poco, di fronte alla gelateria Fassi che Antonioni ha usato in una scena di Identificazione di una donna.

Che emozione quando i film, ma anche le canzoni, i libri, i quadri, sembrano parlare a te, solo a te, nient'altro che a te.
Ti fa sentire unico, ti fa sentire capito, ti fa sentire amato.
Soprattutto ti dice che non sei solo su questa terra.

Altro che dea. Altro che genitori.

Autori, autrici, artisti e artiste che, tramite la loro opera, ti fanno capire che sei sempre meno strano di quanto tu non consideri te stesso.

Capito mamma?


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