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Takis


Alle elementari le suore non ci facevano fare ginnastica.

Però anche nei normali giochi da ragazzini, corse, inseguimenti, io risultavo scarso.
Ero lento, scoordinato, svogliato, pigro.
Non me ne è mai fregato niente di usare la mia forza per vincere su qualcuno nella corsa, nella forza, con la forza.
Però le suore, molto autoritarie in questo, dovevano imporre questo credo di competizione e vittoria che poi è alla base dello sport, altro che gioco di squadra.
Lo sport serve per costruire lo spirito di gruppo, sì, che serve per distruggere la squadra avversaria, l'esercito avversario.
Uno sport davvero collaborativo non esiste. Alla faccia di De Coubertin.

Così la mia suora del triennio, con una caparbietà davvero stronza, della stessa qualità della stronzaggine di mia sorella, bovina, ottusa obbedienza al dettato patriarcale, mi impone di correre, o almeno di provare a correre, più veloce del mio avversario.
Tutto questo davanti al resto della numerosissima classe che sperava solo la competizione finisse presto.
Dovevo vincere per non far perdere tempo agli altri.

Io trovavo ridicolo tutto questo dispiegamento di forze.
Anche se riconoscevo i miei limiti fisici di velocità e scaltrezza trovavo idiota che il valore di una persona si dovesse misurare su chi ce l'ha più grosso, perché di questo si tratta, così sabotavo queste prove patriarcali di potenza.

Il complesso che ospitava la scuola era composto da due edifici, quello principale con le aule e il refettorio e uno secondario, circondato da un proprio giardino, dove abitavano le suore.

Suor Edvige mi intima di gareggiare con Massimo, un ragazzone altissimo e dinoccolato, l'importante, mi dice, non è vincere ma mettercela tutta nel cercare di farlo (e farmi uscire un'ernia, aggiungo io).

Il percorso parte dal cortile antistante la scuola, e prevede il superamento dell'edificio scolastico, il raggiungimento dell'altro edificio e ritorno.

Iniziamo a correre sui lati opposti.
Raggiunto l'edificio secondario, alla prima curva, io mi fermo, aspettando che Massimo passi.
Voglio farlo passare perché non ho nessun interesse nel competere con lui.
Ma Massimo non passa!!!  Sembra scomparso.
A un certo punto, da dietro l'altro lato dell'edificio dormitorio, spunta la sua testa.

Perché ti sei fermato? Volevo farti vincere mi fa, tenerissimo.
Io non mi capacito. La mia autoironia mi ha fatto sciupare la sua cortesia

Io ho sempre creduto di riuscire a cavarmela a solo con la mia autoironia e me ne sono quasi sempre pentito.
Il giudizio sulle persone su cui esercitavo la mia vendetta autoironica era sempre esagerato. Quelle persone non erano poi così malvage contro di me. Proprio come Michele, che arrossì quando credette che gli avevo davvero portato i soldi.
Se invece di rallentare per far vincere Massimo avessi almeno provato a correre grazie a lui avrei potuto vincere perché Massimo me lo avrebbe permesso, perché anche a lui, come a me, non gliene fregava niente di vincere.
Non ho mai imparato lo spirito di corpo.
Ho sempre corso da solo e quando corri da solo rimani solo, sempre.

Mi dispiacque tantissimo di aver sciupato la gentilezza di Massimo.
Ma invece di dirgli che mi dispiaceva, ringraziarlo per l'amicizia che mi stava dimostrando, io pensai che la sua cortesia mi aveva rovinato la scena.
Così invece di andargli incontro e abbracciarlo e dirgli ehi grazie! e  tornare al traguardo insieme, e  magari mettergli le mani sul culo strada facendo, me ne rimasi lì, da solo, imbarazzato e in silenzio.

Dovevo risultare proprio uno snob di ragazzino.

Il guaio è che quando in casa ti chiamano borzo, ti dicono che sei strano come tuo padre ti nasce spontanea una ritrosia che è la tua forma di cortesia nei confronti degli altri ai quali non vuoi imporre la tua stranezza.
Per cui rimani sulle tue e non ti rendi conto che così rischi di apparire altezzoso e snob e poi, quando gli altri non si avvicinano, perché in realtà sei tu che li tieni a distanza, ti convinci che se nessuno si incuriosisce, forse mamma c'aveva davvero ragione.

Mia madre venne a sapere che avevo perso, e, convinta che io fossi fallato, che ci fosse un motivo fisico, organico, dietro la mia borzaggine, mi porta dal dottore, un neurologo eh, mica cazzi, dicendogli che io non so correre.
Non era la prima volta che mamma mi portava da questo tipo di medici perché secondo lei ero poco prestante.
Il dottore sospettando si tratti di un problema maternel, con una voce che lascia intendere, tranquillo, non tengo conto di quel che dice la pazza, mi chiede qual è il problema.
Io gli rispondo che non c'è nessun problema e che non è vero che arrivo sempre ultimo, come dice mia madre.
Arrivo secondo, puntualizzo.
Il dottore guardando mia madre come fosse pazza davvero le dice beh signora, secondo...

Come fossimo a un pubblico dibattimento dove io e mamma siamo le avvocate avversarie e il dottore è il giudice, mia madre gli risponde, chieda a mio figlio in quanti sono a gareggiare.
Il dottore mi guarda senza nemmeno ripetere la domanda e io rispondo, un po' riluttante, beh, in due...

Il dottore ci accomiata dicendo che non c'è nessun problema fisico e che se non voglio correre, mia madre non mi può costringere.
Così anche davanti l'autorità maschile (sospetto sia anche questo il motivo per cui mia madre mi abbia condotto davanti quel medico) sono autorizzato a dire quel che penso.

Mia madre decide allora di mandarmi a fare ginnastica. Così mi ...sborzisco, dice.

Io e altri bambini e bambine dobbiamo correre, fare capriole, saltare bastoni tenuti da questo istruttore magrebino, che si chiama Takis, e che sembra un fachiro, scuro scuro, i capelli lunghi da domatore di cammelli, i peli irsuti che gli spuntano da queste canotte improbabili, più che ginnastica un incubo.

Già è difficile sapermi fisicamente poco agile ma doverlo dimostrare così, davanti a un gruppo di sconosciuti e sconosciute, è troppo.
Ogni volta che mi chiede di fare qualcosa che non so fare è come se Takis mi aprisse la pancia col suo kriss ricurvo e io non riuscissi a trattenere le mie budella che si sciorinano sull'impiantito della palestra.

Come non bastasse mia madre si è raccomandata con Takis che così mi tiene d'occhio e mi incita a fare meglio facendo leva su un amore proprio che non ho (come potrei se sono cresciuto a pane e borzo?).

Poi, grazie alla sua enorme pazienza, Takis, che non è un domatore di cammelli stupido, capisce che mi deve ignorare. Io mi rilasso un po' provo a fare quel che richiedono gli esercizi. Così riesco anche a saltare, a far capriole, coi miei tempi, ma lo faccio.
Questo successo però non mi gratifica, ma almeno niente budella sull'impiantito.

Poi un pomeriggio succede un piccolo incidente.

Un altro ragazzino, mentre cerca di saltare uno dei bastoni che Takis tiene a poche decine di centimetri da terra, quelli che mi facevano  tanta paura e che adesso riesco a saltare quasi sempre, questo bambino, più intimorito di me,  invece di saltarlo pesta il bastone col piede, ci sale sopra con tutto il suo peso, cogliendo Takis alla sprovvista, strattonandogli il braccio che tiene il bastone, causandogli un mezzo strappo muscolare.
Takis reagisce con un ma sei pazzo? Stai attento!  dettato dallo spavento e dal dolore del mezzo strappo.

Io sono felice che quell'incidente non sia capitato a me.

E se da un lato mi immedesimo col ragazzino sapendo benissimo come deve sentirsi dall'altro gioisco che lui sia più borzo di me.

Come un guardone che assiste, dal sicuro dell'isola, al naufragio di una imbarcazione, godendo di quello scempio di vite innocenti, io mi compiaccio che ci sia uno più borzo di me e che tutti e tutte lo guardino con aria di scherno e sufficienza.

Sostenere il ludibrio di quel ragazzino,  contribuirvi a mia volta, è un modo per essere annoverati nell'alveo del gruppo, della sua media normalità.

Non mi sono mai fatto tanto schifo come quella volta.
Pur di non essere macinato dal gruppo contribuisco alla macinazione di qualcun altro più sfortunato di me.

Non solo capisco l'odio che induce certi ragazzini americani ad usare le armi contro i loro compagni e compagne  di classe e i loro e le loro insegnanti,  sono anche sicuro che non mi fossi sottratto a certe dinamiche di gruppo anche io avrei rischiato di fare la fine di quei piccoli killer.

Lo sport è il principale strumento di potere del patriarcato, tanto pericoloso quanto criminale.
Lo sa bene quel ragazzino contro il quale anche io trovavo la mia piccola, vigliacca, disgustosa rivalsa.

Il gruppo, il branco, l'umanità al suo peggio.

Feccia, fogna, da affogare nella merda.


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