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Susan





Sono al Festival cinema giovani di Torino. Nel 1988 si chiama così.
All'epoca oltre all'accredito davano anche l'alloggio. Io ero accreditato con una rivista straniera, Sortie de Secours, del mio amico Patrick. Forse fu anche per quello.

Al festival mi capita di vedere un cortometraggio statunitense, Catwalk, di Susan Graef.

In un piano sequenza, in un delizioso bianco e nero, vediamo questa bella ragazza ispano-americana camminare per le strade di NYC.
La mdp la segue lateralmente.
La ragazza viene raggiunta da due ragazzi, afroamericani, che non vediamo, ma dei quali sentiamo la voce che cercano attaccare bottone con lei.
All'inizio sono gentili e carini, si offrono di accompagnarla, di pagarle da bere.
La ragazza non reagisce e loro insistono.
Lei non dà loro alcuna soddisfazione e i due si arrabbiano, iniziano a insultarla, le chiedono chi si crede di essere, le dicono che non è mica è l'unica che ce l'ha e finiscono per insultarla, dandole della puttana (perché non la dà... ah la mente dei maschi etero...).
Lei, che continua a camminare impassibile, incontra un'amica e si mette a parlare con lei con la lingua dei segni. E' sorda e non ha sentito una parola di quello che i due maschi alpha arrapati hanno detto che si zittiscono scomparendo dal film e dal pianeta, possibly.

Decido che devo conoscere questa regista.
Scopro che è alloggiata nel mio stesso albergo, l'hotel Roma. Sì, quello dove si è tolto la vita Pavese.

Susan è una giovane ragazza newyorkese, bionda e minuta, iperattiva, molto intelligente.
Io mi spertico in complimenti per il suo corto, sciorinando tutto il simbolico che quella storia comporta. Lei ne è lusingata ma anche un po' imbarazzata. Iniziamo a parlare d'altro. Il nostro incontro è una folgorazione, per entrambi.
Farò coppia con lei per tutto il tempo che rimane a Torino (ogni regista con un film in programmazione è ospite per tre giorni). Vedo i film che vede lei, mangio dove mangia lei, ci facciamo le canne insieme, andiamo per locali la sera insieme, ci separiamo per andare giusto in bagno, ma lei usa il mio e io uso il suo.
E' come sei io e Susan fossimo amiche da sempre e stessimo vivendo questa esperienza di Torino insieme.

Dalla mia stanza d'albergo chiamo Frances le racconto del mio incontro e la ringrazio.
Se non fosse stato per lei che mi ha insegnato l'inglese non avrei potuto frequentare Susan.
Frances si commuove.

Io mi sento onnipotente e la mia vita mi piace da morire.

Poi arriva il giorno che Susan deve partire.

La vado a salutare, i recapiti ce li siamo già scambiati.
Ci abbracciamo.
Lei si stringe forte a me. Io ricambio. Quel contatto fisico ci emoziona.
Abbiamo gli occhi lucidi.
Ci turbiamo tutti e due.
Ci piace rimanere così abbracciati per un po', ci piace la confidenza de nostri corpi che non si aspettano niente ma sono pronti a tutto. Anche a un desiderio sessuale.
Io trovo il suo odore molto attraente, l'odore del suo corpo, non il profumo che si è messa.
Lei sa che mi piacciono i ragazzi.
Ma questo non ci impedisce di riconoscerci la possibilità di un desiderio reciproco.
Io la guardo e mi rendo conto che senza cercarlo, con grande spontaneità, con generosa disponibilità da parte di entrambe, con Susan ho raggiunto una intimità fisica e non che coi i ragazzi non ho mai avuto.
Troppe sovrastrutture, troppe difficoltà personali e contingenti (il pubblico ludibrio) nelle relazioni coi ragazzi.
Sono profondamente turbato.
Allora pensai che ero turbato perché provavo desiderio per una ragazza.

Oggi so che ero turbato per la consapevolezza profonda e inconscia che in spite of my sexual orientation riesco a sentire le donne molto più degli uomini, riesco a entrare in contatto, mi apro di più, loro sono disposte ad aprirsi con me come gli uomini con me non si sono mai aperti. So far. E il so far di adesso non di allora.
Vorrei baciarla ma ho mille paure e un milione di scrupoli. Fossi lì adesso la bacerei dolcemente sulle labbra, senza lingua, a labbra dischiuse.
Adesso, qui e a 54 anni, se Susan mi chiedesse di entrare nella sua stanza non le direi di no.
Lì e allora non riesco ad andare oltre quell'abbraccio dal quale non sappiamo entrambe se e come vogliamo uscirne.
L'esitazione dura qualche secondo, abbastanza per renderlo una cosa importante, perché io oggi ne coltivi ancora il ricordo.
Poi Susan si stacca da me, io sento di avere sciupato una possibilità, quando si gira per rientrare in stanza, ed esita, quando mi guarda seria e intensa prima di rientrare nella sua room temo di averla delusa, ma che dico temo, ne sono sicuro.

Da qualche parte nella mia testa mia madre mi sta dicendo I told you so.


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