Attenzione, work in Progress!
Rileggete i post che avete già letto. Li potreste trovare modificati.

Visualizzazioni totali

Renato Zero


Autunno del 1982. Nonna era morta da pochi mesi.
Una sera di ottobre mamma e mia sorella vanno al concerto di Renato Zero.
E mi lasciano a casa.

Non solo mamma non mi aveva detto che voleva andare,  non mi ero nemmeno accorto che avesse comprato i biglietti. Ero venuto a sapere che andavano al concerto quando sono uscite, la sera stessa.

Rimasi interdetto. Come mai non mi ero accorto di niente? 

Certo mia madre non mi rendeva mai partecipe delle sue decisioni. Ma andare a un concerto? Lei?!?

Era nonna a sostenermi i concerti, i film, il teatro, la musica. Per mamma erano sempre state cose superflue, accessorie, e la prima volta che andava mi lasciava a casa!
  
Morta nonna non avevo perso solamente lei, avevo perso l'intera Ginecrazia che era stata sostituita da un duumulierato  il cui atto di nascita si basava sulla mia esclusione. 

D'altronde quella esclusione  mi sembrava legittima, anzi doverosa. Come potevo io, in quanto maschio, interferire nella sororanza che le sosteneva a vicenda?

La mia esclusione però andava ben al di là della sororanza. 
Io ero escluso sempre, in ogni occasione, in ogni processo decisionale, da quelli più importante, per esempio dove trascorrere  le vacanze, a quelli più quotidiani, pizza stasera?

Così anche se mi avrebbe fatto piacere andare a vedere Renato,  mi avevano lasciato a casa, a sentire i miei dischi. Anche quella era una prerogativa del duumulierato.

Reagii come quando ti sfottono a scuola. Facendo finta di niente e tirando dritto.

Quell'uscita al concerto dal quale ero stato escluso mi era sembrata più strana che ingiusta.

Partivo dal presupposto che mia madre non poteva avermi escluso così, per mancanza di cura,  se ci vedevo qualcosa di strano era per la mia permalosaggine.
Trovai tante giustificazioni per tranquillizzarmi: non avevo espresso il desiderio di vedere Renato;  non avevamo i soldi per un terzo biglietto; Renato a mia sorella piaceva di più.

Tacqui la mia delusione, il senso di esclusione, l'ingiustizia di quel gesto.

Non le chiesi come mai,  non le chiesi perché
Per quanto mi riguardava mamma era libera di fare quel che voleva.

Però quella sera, a casa, da solo, mentre sentivo i miei dischi, più che un figlio mi ero sentito un coinquilino. 
Io stavo entrando nella maggiore età, mia sorella entrava nell'adolescenza. 
Invece di ricompattarci, ora che nonna non c'era più, il grimaldello della sororanza mi sgominava dal ménage familiare.
  
Da adulto mi sono spiegato questa esclusione come conseguenza dell'eredità ingombrante di mio padre.

Se ero strano come mio padre - e per mia madre lo ero - allora ero anche numinoso  come lo era lui.
Dovevo essere evitato perché polemico, delirante, contorto, matto e  inaffidabile come mio padre, anche economicamente visto che si giocava lo stipendio ai cavalli.

Per questo ero tenuto all'oscuro dei dettagli tecnici delle nostre finanze, delle potenzialità economiche, delle possibilità di spesa, dei margini di debito che mia madre condivideva  solamente con mia sorella, la quale si guardava bene dal condividere questa sua conoscenza con me.

Avessero condiviso con me la gestione economica di casa io avrei dilapidato i nostri beni in libri, in cinema, in musei e concerti. Tutte cose strane, come le scommesse ippiche di papà.  
Ero un dilapidatore, come lui.
Ero numinoso perché ero figlio di mio padre. Maschio sì, ma fallato. 

Mia madre è sempre stata in competizione con la mia maschilità, la temeva, la sminuiva, la spodestava, perché temeva che se io le tenevo testa l'avrei sconfitta come era stata sconfitta da papà. 
Per cui doveva esautorarmi. 
Poco importava fossi un bambino.  
Anche Mariù mi accusava di essere un intellettuale nonostante fossi un somaro che a scuola veniva bocciato.

Ho sempre pensato che queste immagini distorte e un po' deliranti con cui mi veniva rimandata la mia persona dipendessero da me, dal fatto che valevo poco, che avevo poca autorevolezza.  Fallato. Difettoso. Da sostituire, guidare, redarguire.

Non ho mai considerato potesse essere il risultato dello specchio. 
Non ho mai dubitato dell'oggettività, o almeno della buona fede, dello specchio.

Altro che fallato Venivo escluso perché temuto, perché ritenuto inclassificabile, irriducibile, per la mia unica diversità quella che, viva nonna, mi teneva parte integrante della ginecrazia e che ora che nonna non c'era mi esiliava irrimediabilmente. 

La sera del concerto non mi ero reso conto che anche mia sorella mi aveva escluso, che era andata a vedere il concerto senza di me, che non aveva cercato di evitare quell'esclusione. Sarebbe bastato poco. Mamma perché non lo chiediamo anche ad Alessandro? 

Invece quell'esclusione aveva ricevuto l'endorsement di  mia sorella.

Mia sorella si è subito allineata a mamma e ha cominciato a trattarmi  come fossi un  tizio strano che vive nella stanza accanto. Quello che è meglio ignorare e al quale non sono mai dovute spiegazioni, che d'altronde metterebbe sempre in discussione perché è polemico come papàQuello al quale rinfaccerà di non essere mai stato una figura di riferimento maschile per lei.


Mia sorella era nata dopo che i miei si erano separati e papà non l'aveva praticamente conosciuto. Quando facevamo gli incontri imbarazzanti, quelli con le signore nere che strabuzzano gli occhi, Silvia  aveva 5-6 anni e quando mia sorella era cresciuta quegli incontri erano cessati.

Eppure, ora che crescevamo, era più lei di mia madre a dirmi sei proprio come papà.
Cazzo ne sapevi Silvia, eh ?

Mia sorella non mi ha mai difeso dalle idee che mamma aveva su di me, non è mai stata solidale con me, si è sempre schierata con mia madre coltivando quei pregiudizi a suo vantaggio. 

Un golpe, che mia sorella consumò ai miei danni.

Vero è che io ho sempre taciuto. Non ho mai detto ehi che succede? Perché mi escludete?

Ho sempre ritenuto che se il rispetto non lo si ha , lottare per ottenerlo è comunque una ammissione di sconfitta.
Come con i bulli a scuola: o subisci o dimostri che anche tu sai usare la violenza, o vittima o carnefice. 
Ma che razza di lezione di vita è?
Non è meglio fare finta di niente, fare finta che il rispetto ci sia anche quando non c'è?

Così ragionando mi sono addossato la responsabilità decisionale e politica, se così mi posso esprimere, di mia madre e di mia sorella, anche.

Ho sempre amato il modo in cui mia sorella teneva testa ai ragazzi che la corteggiavano usando contro di loro la loro stessa foja che mia sorella usava come si ammaestrano le belve feroci.   
Con me ha usato altre leve. 

Mi ha fatto sentire offeso, incazzato, indignato, arrabbiato, in polemica, reattivo alle sue bugie, schiacciato dalle sue false verità, come quella, davvero disgustosa, che avevo gettato il ludibrio su mia madre, che l'avevo fatta vivere nella vergogna per la mia omosessualità.

Così mia sorella mi distraeva e non mi accorgevo di come lei avesse nutrito e guidato i pregiudizi che mia madre aveva su di me a mio detrimento.

Qual era il suo vantaggio? Nessuno concreto.

Non è che se al concerto ci andavo pure io non potevamo permettercelo e allora avrebbe dovuto rinunciarci anche lei. Il vantaggio di mia sorella era un vantaggio tattico.

Mia sorella faceva delle cose dalle quali mi avevano escluso lei e sua madre.

Come papà, come maschio strano, incatalogabile, non omologabile, per mia sorella ero solo un intralcio. 
Il potere nasceva dalla possibilità di potermi escludere. Il prestigio di stare in un club il cui prestigio non derivava da chi ne faceva parte, ma da chi ne era escluso.  

La battuta di Marx, Groucho, acquista un'ombra di significato di tutt'altra natura.

Zia Clara se n'era accorta quando, con molta dignità, mi aveva esortato a prendere la mia pare di soldi dal conto di mamma prima che mamma morisse.
E io, non credendo che mia sorella potesse mai fare quello che zia stava insinuando, le avevo risposto  piccato Zia come ti permetti Silvia è mia sorella!

Quel con!

Leale a mia sorella perché è mia sorella, senza chiedermi se la mia lealtà fosse ben riposta.

Cara Antonella credo di avere finalmente capito il perché di tutto questo rancore soffocato nei confronti di Silvia: a causarlo è la sua mancanza di lealtà, la sua assenza di solidarietà di classe che mi ha offeso, mi ha ferito.

La slealtà di chi bara, di chi mente, di chi si approfitta dell'ingenuità altrui. La mia.

Quando mia madre mi disse delle posate e delle stoviglie dedicate per tutelare mia sorella stava celebrando il legame che aveva stretto con lei proprio perché non lo aveva con me.

D'altronde io ho iniziato a parlare con mia madre solamente quando mia sorella era diventata troppo nervosa  e incazzata per continuare ad avere con lei il rapporto che aveva  prima.

Era il periodo in cui Silvia urlava io e mia madre parlavamo sottovoce per non svegliarla.

Tanto ormai mia sorella aveva già avuto tutto il potere di escludermi. Aveva lei il controllo.
Il coup d'état si era consumato, ai miei danni.

Io e mia sorella non abbiamo mai parlato dei  pregiudizi che abitavano mia madre, mai, nemmeno dopo la sua morte,  Anzi, ancora oggi lei pretende che mia madre mi abbia sempre sostenuto. 
Ma quella era nonna, non mamma.

La frode che ho subito da Gianburrasca non è stata la prima frode della mia vita, ma la seconda.

La prima è stata quella che mia sorella ha artatamente compiuto ai miei danni, non perché mors tua vita mea, ma perché poteva farlo.

Mentre io mi facevo scrupoli e mi sentivo  meschino perché desideravo fare parte di un sodalizio che mi dicevo non mi spettava per forza, mia sorella e mia madre vivevano tranquille una vita familiare dalla quale mi avevano escluso. 
E mia sorella che mi ha sempre accusato di non esserci!

Mi sono detto che se mia madre preferiva mia sorella a me, era un suo diritto. Colpa mia che non ero abbastanza amabile.

Se una madre non ci ama è sempre colpa nostra. Non possiamo mai pensare che sia proprio lei a non amarci.  O anche una sorella.

Così invece di dire a entrambe siete due stronze alla fine conclusi che era giusto che non mi avessero portato al concerto di Renato Zero con loro, era un loro diritto.

La rabbia che provo nei confronti di mia sorella la provo in realtà per me stesso. Ecco perché quella rabbia non si placherebbe nemmeno se riuscissi davvero a strangolare mia sorella come dico nei mie deliri.

Sono arrabbiato con me stesso. 
Sono arrabbiato con me stesso per averle permesso di escludermi, per non essermene accorto, per non avere fatto nulla per impedirlo.

Mi è stato più facile concedere che io fossi davvero numinoso come papà che ammettere che mia  madre e mia sorella, o Lesa e Gianburrasca, non mi vogliano bene, non mi stimino, ma si limitino a sopportarmi, e mi trattino con sufficienza, con sopportazione.
Era già amaro pensare che l'umanità
fosse insincera, sterile, servile;
ma peggio fu fidarmi della mia mente
e trovarvi la stessa corruzione. 
Emily Brontë



Commenti