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L'altrove so cos'è




Ho sempre sentito che per me la vita è altrove.
Un altrove che agogno ma non trovo.
Un altrove dal quale vengo e al quale non so come tornare.
Ne trovo tracce nelle canzoni, quando la musica mi fa provare emozioni che mi sembra di aver già provato prima, in un altro contesto con altre persone.
Ne trovo traccia nelle città, come Parigi, che ogni volta che la abito mi sembra di essere tornato a casa alla mia vita di una volta.
Ne trovo segni anche nei grandi musei moderni, in legno e metallo, pensati da designer del nord.

Il mio altrove somiglia all'Ikea, la gioia che mi dà il modo in cui allestisce i suoi reparti, l'estro che provo nello scegliere dei piatti da gustare così diversi eppure familiari. Una familiarità innata, non basata sull’esperienza, ma sul ricordo innato, platonico, assoluto.
L'altrove è quel museo nuovo di zecca che visitai con Patrick e Paolo quando andammo a Bruges nel 1987.
L'altrove è un tempo fatto di solo presente senza passato che incombe, futuro che incalza.

Il mio altrove ha un retrogusto di domenica, di festa, meglio, di un giorno feriale dove tutti lavorano (o vanno a scuola) e io e gli altri no. Chi sono questi altri? Non lo so. Quelli ai quali solevo accompagnarmi. Accoliti. Discepoli. Maestri, non saprei.

L'altrove è fatto di pausa, di festa, di legno e di metallo, di sole e di gioia.
E' fatto di un anelare a un posto fisico lontano o vicino, ma altro.
Un posto dove sono stato felice perché me lo ricordo, e quel ricordo è una promessa di felicità che mi rallegra.
L'altrove è un presente da riempire di ricordi del futuro.
Un posto dove sono amato, ho un fidanzato bello e giovane che mi desidera, e io sono liber senza incombenze o preoccupazioni, o madri morte, o sorelle stronze, o ex che mi mancano, o altri ex ostili, o amiche morte il cui vuoto è un posto doloroso sempre più filthy e osceno.

L'Altrove è un oltre, è una porta aperta che mostra un'altra stanza, perché c'è sempre un'altra stanza dove vorrei andare, dove sento che dovrei stare, da dove vengo e alla quale non so come tornare.

Dove persone sorridenti e benevole, giovani e belle, probabilmente tutte di sesso maschile, mi attendono, mi accolgono, ma sono troppo prese della loro felicità per accorgersi della mia mancanza e venirmi a cercare.

D'altronde perché dovrebbero cercarmi?

Il posto dove loro sono pare così accessibile, a un passo di porta, non devo nemmeno attraversare il muro come i fantasmi.

Un posto al quale sento di non appartenere più. O di non aver mai appartenuto.
Se credessi nella reincarnazione parlerei di un'altra vita.
Ma io so che ne abbiano solo una e io sento che la mia non l'ho mai davvero vissuta perché lei se ne stava altrove.
L'ho provato tra le montagne di Bolzano, lo scorso anno.
Tra gli autogrill per andare a Innsbruck, tra le funivie per Nordkette.
Dove riconosco, senza mai esserci stato prima, una organizzazione, uno stile, una concezione di vita che sento più congeniali, più consoni, più vitali, più in armonia col mio essere, con la mia forza vitale, col mio bioritmo.
Una sorta di mondo delle idee ma senza alcuna barriera metafisica, solo una barriera umana, fatta dagli uomini dalle donne, che non so come sgominare, che non so se mi va di sgominare, perché quell'altrove dovrebbe riportarmi a sé con naturale facilità, senza sforzo alcuno.

L'altrove è un'altra lingua, un'altra cultura, che non sia quello scempio osceno e disgustoso della cultura italiana, nella quale sono precipitato per marcire come l'uomo che cadde sulla Terra.
Uomo Alieno tra gli uomini che non sa darsi una misura e che spera ancora che qualcuno, qualcuna, lo faccia tornare là dove avrebbe sempre dovuto essere e non è stato quasi mai.

Dio come piango mentre scrivo queste note.

Piango forse una vita che non ho mai avuto il coraggio di vivere?

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