La sindrome del canotto
Al primo anno di università collaborai da esterno a diversi laboratori teatrali tenuti dall'ex conduttore del mio liceo e dal suo assistente che si era messo a fare laboratori per conto suo.
Fu così che mi ritrovai in un liceo dell'Eur a scrivere un musical in un atto unico, Pompei serenade, nel quale un gruppo di liceali del quinto, in gita di istruzione verso Pompei, va fuori strada col pullman ed entra in coma, tutti e tutte, tranne il professore che è l'unico illeso. Quell'incidente è occasione per le anime degli e delle studenti di fare il bilancio della loro vita.
Sono molto orgoglioso di quell'atto unico che affronta tutte le tematiche dell'adolescenza, comprese quelle dell'orientamento sessuale.
Io e Marco, il mio primo amico gay, scrivemmo a quattro mani il testo di una canzone che raccontava di un rimorchio riuscendo a non usare nessun accordo di genere (l'ho vista, gli ho parlato) in modo che
potesse andare bene per una coppia lei-lui, lui-lui e lei-lei.
Io e Marco recitavamo anche nello spettacolo, dove interpretavamo anche un duetto. Io cantavo diverse canzoni in duetto e una da solo, mettendo in pratica le mie lezioni di canto jazz che avevo preso perché Frances, che all'epoca era ancora la mia diva, era tra le insegnanti.
Alla fine della canzone che cantavo da solo della quale avevo scritto il testo (Tu sei la vita mia e perciò non ti butto via) che era una dichiarazione amore verso la vita (eravamo tutti e tutte in coma, ricordate?) faccio una sorta di coming out cantando amami Alfredo che però è una citazione della Traviata... Mica cazzi.
Sono più soddisfatto di quel che scrissi che del mio lavoro sulla scena, anche se ricevetti molti complimenti per la mia voce.
C'è una scena della quale sono particolarmente orgoglioso.
Una scena comica a più voci quando una famiglia viene a trovare uno dei ragazzi comatosi e ogni componente della famiglia ha una sua fissa, la madre è dentro la retorica del povero il mio bambino, e lo ripete in continuazione, trovando una sponda alla sua retorica nel professore (interpretato da una ragazza); la sorella cerca un ragazzo da sedurre (e alza il lenzuolo di ogni comatoso dell'ospedale commentando questo è brutto, questo è vecchio, questo è donna, questo non ce l'ha) e allora si rivolge al dottore, parlandogli nello stetoscopio; la nonna che sospetta che in famiglia vogliamo zottarle la pensione e dice ad alta voce ma io non ve la do mentre il padre ascolta la partita di nascosto così i commenti al guidatore che ha condotto il pullman fuori strada diventano commenti al calciatore che non sa giocare.
Le battute di ogni personaggio sono organizzate come in una partitura musicale dove ognuno ha il suo tempo, il suo spazio, i suoi momenti di assolo e quelli di sovrapposizione, finché alla fine tutti i personaggi si ritrovano a fare uno stesso urlo per motivi diversi, dottore compreso.
Mi divertii molto a scrivere quella scena e fu una gioia vedere che sul palcoscenico funzionava così come funzionava sulla carta, il che non era detto. Non sempre quel che funziona sulla catta funziona anche in scena.
Facemmo quattro repliche di Pompei... mi vennero a vedere Frances e Mariù. Mia madre non si degnò. D'altronde mia sorella in quello spettacolo non c'era...
Quando Io e Marco (che era uno ex studente della scuola) venimmo presentati al laboratorio, Marco disse che eravamo due bravi attori, il che era anche vero, ma quello che ci rese popolari oltre al fatto di essere almeno un paio di anni più grandi di tutti gli altri, era che fossimo due gay dichiarati.
Eravamo nel 1986 e venimmo accolti a braccia aperte dai ragazzi del laboratorio.
Manuele, uno dei due autori delle musiche delle canzoni, una volta, per scherzo, si era messo col sedere all'aria su un banco, chiedendoci chi dei due volesse prenderlo.
Lo so il gesto può fare orrore ma per un ragazzo etero che associa l'omerotismo al coito anale era una sorta di benvenuti.
Marco rise imbarazzato io gli palpai il culo ed Emanuele si fece palpare senza dire niente.
Tra i ragazzi del laboratorio c'era anche questo ragazzetto del biennio, Federico, che era un amore, occhi furbetti, un sorriso che innamorava. Me lo guatavo sperticandomi in complimenti.
Dando per scontato non gli interessassi, alle mie professioni di interesse non facevo mai seguire nessuna azione concreta.
Durante le prove, un pomeriggio Federico mi dice che ha dei dubbi su alcune battute che deve dire e mi chiede se posso aiutarlo.
Io gli dico certo quando vuoi.
Fede mi fa Anche ora? Ma non qui, continua, c'è troppa confusione, andiamo in aula, e mi indica una sorta di stanza ripostiglio dove usavamo tenere vestiti e zaini e cartelle.
Io entro, Fede chiude la porta e mi raggiunge. Mi guarda con un sorriso speranzoso e mi dice Ho chiuso la porta a chiave. Chissà cosa penseranno.
Poi mi guarda negli occhi e diventa improvvisamente serio.
Io non cogliendo minimamente il suo gesto gli dico Dai dai fammi sentire queste battute che non abbiamo tutto il pomeriggio.
Solo dopo lo spettacolo Fede mi dirà che quel pomeriggio aveva sperato tanto lo baciassi e che c'era rimasto male io non avessi colto il suo invito.
Non avevo visto alcun invito mi giustificai sprofondando ancora di più nell'imbarazzo.
Ecco uno dei più squisiti esempi di sindrome del canotto.
Dietro c'è una barzelletta, di quelle fiume, che cercherò di riassumere.
Io di occasioni ne ho avute, anche diverse.
Ma non sono mai stato capace di coglierle perché non me ne sono nemmeno accorto!
Ho lasciato andare via tanti canotti, per cui la sindrome del canotto.
Ce ne sono stati di più clamorosi di quello con Federico, col quale non sono mai riuscito a concludere, anche perché io poi fidanzai, per la seconda volta, con Paolo...
Ve li racconterò quando men ve lo aspettate.
Fu così che mi ritrovai in un liceo dell'Eur a scrivere un musical in un atto unico, Pompei serenade, nel quale un gruppo di liceali del quinto, in gita di istruzione verso Pompei, va fuori strada col pullman ed entra in coma, tutti e tutte, tranne il professore che è l'unico illeso. Quell'incidente è occasione per le anime degli e delle studenti di fare il bilancio della loro vita.
Sono molto orgoglioso di quell'atto unico che affronta tutte le tematiche dell'adolescenza, comprese quelle dell'orientamento sessuale.
Io e Marco, il mio primo amico gay, scrivemmo a quattro mani il testo di una canzone che raccontava di un rimorchio riuscendo a non usare nessun accordo di genere (l'ho vista, gli ho parlato) in modo che
potesse andare bene per una coppia lei-lui, lui-lui e lei-lei.
Io e Marco recitavamo anche nello spettacolo, dove interpretavamo anche un duetto. Io cantavo diverse canzoni in duetto e una da solo, mettendo in pratica le mie lezioni di canto jazz che avevo preso perché Frances, che all'epoca era ancora la mia diva, era tra le insegnanti.
Alla fine della canzone che cantavo da solo della quale avevo scritto il testo (Tu sei la vita mia e perciò non ti butto via) che era una dichiarazione amore verso la vita (eravamo tutti e tutte in coma, ricordate?) faccio una sorta di coming out cantando amami Alfredo che però è una citazione della Traviata... Mica cazzi.
Sono più soddisfatto di quel che scrissi che del mio lavoro sulla scena, anche se ricevetti molti complimenti per la mia voce.
C'è una scena della quale sono particolarmente orgoglioso.
Una scena comica a più voci quando una famiglia viene a trovare uno dei ragazzi comatosi e ogni componente della famiglia ha una sua fissa, la madre è dentro la retorica del povero il mio bambino, e lo ripete in continuazione, trovando una sponda alla sua retorica nel professore (interpretato da una ragazza); la sorella cerca un ragazzo da sedurre (e alza il lenzuolo di ogni comatoso dell'ospedale commentando questo è brutto, questo è vecchio, questo è donna, questo non ce l'ha) e allora si rivolge al dottore, parlandogli nello stetoscopio; la nonna che sospetta che in famiglia vogliamo zottarle la pensione e dice ad alta voce ma io non ve la do mentre il padre ascolta la partita di nascosto così i commenti al guidatore che ha condotto il pullman fuori strada diventano commenti al calciatore che non sa giocare.
Le battute di ogni personaggio sono organizzate come in una partitura musicale dove ognuno ha il suo tempo, il suo spazio, i suoi momenti di assolo e quelli di sovrapposizione, finché alla fine tutti i personaggi si ritrovano a fare uno stesso urlo per motivi diversi, dottore compreso.
Mi divertii molto a scrivere quella scena e fu una gioia vedere che sul palcoscenico funzionava così come funzionava sulla carta, il che non era detto. Non sempre quel che funziona sulla catta funziona anche in scena.
Facemmo quattro repliche di Pompei... mi vennero a vedere Frances e Mariù. Mia madre non si degnò. D'altronde mia sorella in quello spettacolo non c'era...
Quando Io e Marco (che era uno ex studente della scuola) venimmo presentati al laboratorio, Marco disse che eravamo due bravi attori, il che era anche vero, ma quello che ci rese popolari oltre al fatto di essere almeno un paio di anni più grandi di tutti gli altri, era che fossimo due gay dichiarati.
Eravamo nel 1986 e venimmo accolti a braccia aperte dai ragazzi del laboratorio.
Manuele, uno dei due autori delle musiche delle canzoni, una volta, per scherzo, si era messo col sedere all'aria su un banco, chiedendoci chi dei due volesse prenderlo.
Lo so il gesto può fare orrore ma per un ragazzo etero che associa l'omerotismo al coito anale era una sorta di benvenuti.
Marco rise imbarazzato io gli palpai il culo ed Emanuele si fece palpare senza dire niente.
Tra i ragazzi del laboratorio c'era anche questo ragazzetto del biennio, Federico, che era un amore, occhi furbetti, un sorriso che innamorava. Me lo guatavo sperticandomi in complimenti.
Dando per scontato non gli interessassi, alle mie professioni di interesse non facevo mai seguire nessuna azione concreta.
Durante le prove, un pomeriggio Federico mi dice che ha dei dubbi su alcune battute che deve dire e mi chiede se posso aiutarlo.
Io gli dico certo quando vuoi.
Fede mi fa Anche ora? Ma non qui, continua, c'è troppa confusione, andiamo in aula, e mi indica una sorta di stanza ripostiglio dove usavamo tenere vestiti e zaini e cartelle.
Io entro, Fede chiude la porta e mi raggiunge. Mi guarda con un sorriso speranzoso e mi dice Ho chiuso la porta a chiave. Chissà cosa penseranno.
Poi mi guarda negli occhi e diventa improvvisamente serio.
Io non cogliendo minimamente il suo gesto gli dico Dai dai fammi sentire queste battute che non abbiamo tutto il pomeriggio.
Solo dopo lo spettacolo Fede mi dirà che quel pomeriggio aveva sperato tanto lo baciassi e che c'era rimasto male io non avessi colto il suo invito.
Non avevo visto alcun invito mi giustificai sprofondando ancora di più nell'imbarazzo.
Ecco uno dei più squisiti esempi di sindrome del canotto.
Dietro c'è una barzelletta, di quelle fiume, che cercherò di riassumere.
Durante un nubifragio un giovane ragazzo che non sa nuotare prega iddio che lo salvi perché non ha ancora conosciuto l'amore.
La voce numinosa dell'onnipotente gli assicura la salvezza.
Così quando passa un canotto che lo può portare in salvo il ragazzo, magnanimo, declina l'invito invitando i soccorritori a salvare qualcun altro tanto a lui lo salva dio.
Lo stesso succede con un secondo e addirittura un terzo canotto.
Tutti mandati via perché a lui, il ragazzo, lo salva l'onnipotente.
Il ragazzo invece finisce per morire annegato.
Giunto in paradiso chiede di andare all'ufficio reclami.
Gli angeli, basiti, dicono che mai nessuno si è lamentato in paradiso ma il ragazzo insiste a me doveva salvarmi dio.
Così viene indirizzato a san Pietro al quale espone le sue lamentele.
Pietro chiede al ragazzo il suo nome, lo cerca poi su un enorme e polveroso registro, trovatolo ne consulta le note e poi, gli dice, con malcelata stizza Eh ma anche tu figliolo! Ti abbiamo mandato tre canotti!
Io di occasioni ne ho avute, anche diverse.
Ma non sono mai stato capace di coglierle perché non me ne sono nemmeno accorto!
Ho lasciato andare via tanti canotti, per cui la sindrome del canotto.
Ce ne sono stati di più clamorosi di quello con Federico, col quale non sono mai riuscito a concludere, anche perché io poi fidanzai, per la seconda volta, con Paolo...
Ve li racconterò quando men ve lo aspettate.
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