La forza di fare da padre a mio padre
Estate1984.
Tornavo da Massenzio.
3 schermi, 9 film a serata, tre per schermo, l'intero Circo Massimo ricostruito come piazza, con negozi di ogni genere, due librerie, negozi di dischi, massaggi orientali, cabine telefoniche, non solo cibo e alcool, ma anche cultura e socializzazione.
Quella notte avevo fatto particolarmente tardi, allo schermo grande avevano dato l'allora trilogia di Star Wars.
In totale quasi 7 ore di proiezione.
Era stata una serata particolarmente piacevole e non volevo che finisse.
Lasciato Massenzio mi recai a passi lenti alla fermata del 13 notturno che passava vicino la Bocca della Verità.
I cespugli limitrofi vibravamo tradendo la presenza di qualcuno che ci si infilava per scopare, ma io allora non lo sapevo e, spaventato, avevo tirato dritto.
Rientrai che saranno state le 5 del mattino.
Alle 9 ero di nuovo in piedi, pronto a portare alcuni libri che avevo comprato alla libreria dell'usato di Massenzio dalla rilegatoria in cima alla via di casa per far tagliare un poco i bordi e togliere quella patina di sporco e di vecchio che si era formata.
Saranno state le 9.30 quando salgo le scale per tornare a casa e penso che forse mi rimetterò a letto.
Per le scale, tra il secondo e il terso piano, sento una voce maschile chiedere a mia sorella se era maggiorenne.
La sento rispondere, allarmata, sono la figlia, sono la figlia.
Capisco già di cosa si tratta.
Salgo veloce gli ultimi gradini e trovo mia sorella con questo poliziotto di mezza età che mi guarda con aria inquisitoria, come fossi io l'estraneo e non lui, lì, sul pianerottolo di casa mia.
Io sono maggiorenne dico in maniera che non lascia spazio a commenti o altre domande stupide.
Il poliziotto mi dice che papà si è suicidato qualche ora prima, lanciandosi dall'ultimo piano di un padiglione del Forlanini.
Io commento ad alta voce, senza davvero rendermene conto, l'ha fatto di nuovo...
Il poliziotto, non brillando certo di empatia, ma annaspando sul crinale di una burocrazia da forze dell'ordine, si sente autorizzato a dire Come lo ha fatto di nuovo? Ci si può suicidare solo una volta.
Io lo guardo e gli rispondo riuscirci sì, questo non vuol dire che non ci si possa provare più volte se si fallisce.
Stranamente per i miei standard quella puntualizzazione mi aveva dato fastidio più per la mancanza di tatto che per il fatto che il poliziotto avesse torto.
Papà aveva tentato il suicidio quando mamma era incinta di Silvia. Per questo i miei si erano separati.
Si era gettato dalla tromba delle scale di casa di nonna, la casa dove saremmo andati ad abitare dopo la separazione. All'epoca non c'era ancora l'ascensore.
Giancarlo, quello che non mi ama e non è attratto fisicamente da me, la prima volta che lo porto su a casa per scopare, ancora non siamo entrati, siamo sul pianerottolo, ha quasi un mancamento.
Mi dice, qui è successo qualcosa di terribile, lo sento.
Io che non ho mai creduto a queste cose ma non posso negare l'evidenza, gli dico, in effetti è vero. Mio padre ha tentato il suicidio qui.
Lui se ne addolora come fosse appena successo e mi abbraccia dicendomi e tu come stai? Come l'hai presa?
Non male per un fidanzato di primo pelo.
Mi sono sentito ascoltato, considerato, amato, tutelato.
Ora capite perché mi faceva amale vederlo dopo che mi aveva lasciato?
Mia sorella si sente in imbarazzo quando parlo del suicidio di papà.
Perché devi tirare fuori sempre questa storia? mi dice con il tono di chi non vuole ascoltare che suo padre abbia truffato i risparmi a mille famiglie con delle obbligazioni taroccate.
Mi spiace si imbarazzi ma se parlo del suicidio di papà è perché fa parte della sua storia.
La censura che mia sorella vorrebbe impormi mi sembra una ingiustizia nei confronti di papà.
Mia sorella mi trasforma così nel testimone della verità, una verità che fa bene anche a noi.
Se penso alla morte di mamma mi dispiace molto di più perché lei avrebbe voluto continuare a vivere, mentre papà ha scelto di morire e io rispetto questa sua decisione, che mi sembra un grande atto coraggio, una conquista che non tutti sono capaci di raggiungere.
Per mia sorella il suicidio di papà è una vergogna da nascondere, qualcosa da non dire, che nessuno vorrebbe dire e se io lo dico è perché sono strano io. Che bisogno hai di dirlo?
Perché mia sorella non ti dice mai questa cosa crea mi crea dei problemi, puoi cercare di evitarla? che uno magari lo fa pure.
Mia sorella ti dice sempre che non è un problema per lei, che quella cosa le dà fastidio perché è oggettivamente fastidiosa, che è un comportamento che dà all'universo mondo e nessuno che è normale lo fa. Al che, se anche tu non volevi farlo, come minimo ora lo fai per due mesi di seguito.
Una volta me ne contrivo di questa sua menzogna egocentrica, poi ho imparato a fregarmene con ferocia.
Il rispetto va dato quando si riconoscono anche i propri limiti, non è possibile che siano sempre gli altri e le altre a essere strane.
Mando mia sorella a casa, riscendo le scale con il poliziotto ed entro nella volante del 113.
Mentre salgo nella macchina della polizia mi gingillo con l'idea di essere visto da qualcuno o qualcuna del quartiere che può pensare che ho dei guai con la giustizia.
Al Forlanini un altro poliziotto mi dà il portafogli di papà, mi fa firmare un verbale di ricevuta dei suoi effetti personali.
Mi chiede se lo voglio vedere.
Rispondo no, senza esitazione.
Mi chiede se voglio essere riaccompagnato a casa ma preferisco di no.
Ho bisogno di camminare. Mentre cammino il portafogli di papà che tengo in mano mi brucia come lo avessi rubato. Aprirlo per vederne il contenuto mi sembra una forma di violazione della sua privacy. Ma ormai papà è morto, anche se ancora fresco cadavere.
Il portafogli è pieno di fogli, di appunti, biglietti da visita, ritagli di giornale, un paio di schedine del totip precompilate. Pochissimi i soldi, qualche spiccio e un paio di banconote di piccolo taglio.
Mio padre aveva minori disponibilità economiche di me.
La cosa mi mortificò non poco. Non avevo mai pensato che papà potesse vivere in ristrettezze economiche.
Un po' tardi per preoccuparmene.
Intanto mia sorella, sgomenta, fa capolino sulla porta di camera nostra e mi chiede, sincera, Come lo diciamo a mamma?
Glielo dico io, le rispondo, e me ne pento subito.
Oltre al dolore di dover comunicare una cosa così definitiva come la morte, ho paura che mamma, alla notizia, possa sentirsi male.
Anzi non lo temo, ne sono certo.
Nel mio immaginario di figlio la cui madre ha sacrificato l'amore per il marito a quello per i figli (me lo raccontò lei in un momento di confidenza fosse per me potevo anche mangiare pane e cipolla e rimanere con vostro padre. Ma avevo te e Silvia da crescere e io le avevo risposto A rischio di sembrarti ingrato se gli volevi così bene potevi anche metterci in un collegio) alla notizia della morte di papà mamma non può che avere un malore.
Niente di grave però so che me ne spaventerò.
Quando mamma arriva a casa, particolarmente stanca, io mi avvicino e le dico, serio, ti devo dire una cosa.
Lei mi risponde Non mi chiedere soldi che non ne ho.
Allora le dico di papà, con la stessa soddisfazione con cui cali un asso a briscola.
Lei mi fa mille domande.
Come l'hai saputo?
E' venuta la polizia?
Che t'ha detto?
Dove l'hanno portato? Alla mia mancata risposta a questa domanda si scoccia e va svestirsi.
Evito di dirle che ho fatto salire due giornalisti di Paese sera, che mi hanno fatto mille domande su papà e chiesto la mia opinione sulla legge Basaglia che io ho difeso a spada tratta evitando che la morte di papà venisse strumentalizzata.
Conservo ancora l'articolo.
Sono deluso che mamma non abbia avuto un malore ma abbia reagito come avesse ricevuto una cartella esattoriale. Come se la morte di papà fosse solo una questione burocratica e non esistenziale.
Io dovevo fare i conti con quello che per lui era stata una liberazione e che per me era invece una privazione, e lei si chiedeva chi avrebbe pagato il funerale...?
Per la prima volta vidi una donna totalmente diversa da quella del mio immaginario collettivo. Tutt'altro che fragile o malata, tutt'altro che vulnerabile o sprovveduta.
Mamma conosceva bene superfici e limiti del mondo e rispetto la morte di papà aveva le idee chiare. Non era un suo modo per difendersi.
La morte di papà a mamma cambiava poco.
Allora non pensai a un litigio feroce che io e mia madre avevamo avuto pochi anni prima.
Ci penso adesso invece.
Una volta papà chiamò a casa che mamma non c'era.
Risposi io.
Papà era nelle vicinanze e mi propone di incontrarci.
Quando ci vedemmo lui è felice di vedermi.
Era più lucido delle altre volte, mi sembrava per la prima volta di incontrare quell'uomo che era mio padre. Lui per la felicità di vedermi mi regala tutto il contenuto della borsa che aveva con sé.
Una camicia, un maglione, il Mein kampf di Hitler (?!) libro al quale strappa tutte le foto dicendo che sono brutte e che non vuole che io le veda.
Ho ancora quel libro.
Poi, mente cerca nella borsa cos'altro mi può regalare si ritrova in mano con una delle anime di ferro che servono a rendere rigido il fondo delle borse. Io a vederlo con un ferro in mano trasalgo. Papà vede la mia reazione e mi fa Non ti spaventare! E' il ferro della borsa, e lo piega in due, vedi? Sono tuo padre, mica avrai paura di me!
Io sono felice. Che abbia riconosciuto la mia paura, che non si sia arrabbiato per il giudizio che c'era dietro, che mi abbia spiegato che non dovevo avere paura e il perché. Poi papà mi saluta dicendomi che è meglio che torno casa se no mamma non vedendomi si preoccupa.
Torno a casa camminando a venti centimetri da terra.
Quando dico a mamma quello che è successo lei si infuria come non mai.
Guarda la camicia, mi chiede se è pulita, dice che il maglione è usato, si arrabbia che io abbia visto mio padre da solo mi tratta come fossi ancora un bambino ma io dovevo avere almeno 16 anni.
Poi prende il telefono e parla con papà e gli dice non avvicinarti mai più ai miei figli (dice proprio così, miei, mamma ha avuto me e silvia per patogenesi) senza la mia autorizzazione o vado dal giudice.
Allora mamma sa come contattare papà.
Mi ha sempre mentito allora, dicendomi che era lui a chiamare e che lei non sapeva come contattarlo.
Sono preoccupato (chissà quante altre volte mia madre mi ha mentito) ma anche contento (ora che ho scoperto la verità posso difendermene) disgustato da quel quadretto tra lei e papà.
E io che sono anche trasalito credendo a quella versione di papà matto pericoloso in cui sono cresciuto.
Quando mia madre attacca le dico solo una frase.
Tu non puoi evitarmi di vedere mio padre se io lo voglio. Prova ad azzardarti a farlo un'altra volta e ti faccio arrestare.
Mia madre ha sempre saputo il fatto suo su papà e con me e Silvia ha giocato la carta della moglie ferita per meglio controllarci e sottrarci come poteva a lui.
Non mi interessano i motivi di mamma adesso.
In questo momento vedo solo i miei diritti violati e mi bruciano le mani perché vorrei schiaffeggiarla. Giuro.
Dai due giornalisti ero venuta sapere molte cose che ignoravo su mio padre.
Che era molto benvoluto dal quartiere. Che lo chiamavano l'avvocatino a me da bambino mi chiamavano l'avvocato cipolletta, ma era uno sfottò) che dava aiuto a tutti quelli che glielo chiedevano a far rispettare diritti violati, a chiedere sussidi, a non pagare multe. Che vendeva schedine prepagate, che vincevano qualche volta. Che aveva opinioni informate su tutto. Un personaggio. Un uomo che io non avevo mai conosciuto.
Anche mia madre in fondo non la conoscevo così bene.
Una estranea che invece di svenire per il dolore della morte di papà come mi sarei aspettato si stava preoccupando di chi pagava il funerale.
Per quanto mi riguardava io stavo male non per la morte di papà in sé. Sapevo che per lui il suicidio era una conquista, l'affermazione della sua volontà, e la rispettavo.Una estranea che invece di svenire per il dolore della morte di papà come mi sarei aspettato si stava preoccupando di chi pagava il funerale.
Mi chiedevo quali cambiamenti la sua morte avrebbe portato nelle nostre vite, o almeno, nella mia.
Certo con papà non avevamo avuto mai alcuna frequentazione strutturata, nessun weekend a casa sua con la sua compagna o il suo compagno, come va tanto di moda oggi.
Papà era una assenza ingombrante che quando meno te lo aspettavi si concretizzava in una presenza repentina, imbarazzante, dolorosa, inevitabile.
Dolorosa e imbarazzante perché così erano state filtrate attraverso la placenta emotiva dentro la quale mamma mi aveva fatto vivere questi incontri.
Io non sono mai riuscito a godermi un incontro con papà perché avevo sempre paura mamma potesse sentirsi male per via del cuore.
Poi gli incontri già radi erano addirittura diminuiti. eppure io mi chiedevo.
Ora che tutto questo veniva a mancare come l'avremmo vissuta?
Cosa ci sarebbe successo a medio e lungo termine?
Io a quel papà ectoplasmatico mi ci ero abituato e l'improvvisa scomparsa dell'ectoplasma mi preoccupava.
Quando avevo iniziato ad uscire la sera e mi era capitato di fare particolarmente tardi, di fare le ore piccole in zone di Roma deserte o poco frequentate, associavo questa eccezionalità della mia routine a papà, come se mi aspettassi di vederlo comparire da un momento all'altro.
Papà abitava il mio limine ed era ai confini di quel limine che sentivo la sua assenza talmente grande da aspettarmi si facesse presenza. E attendevo la sua comparsa improvvisa sempre once un certo imbarazzo.
Imbarazzo non per le sue condizioni mentali, non per il suo comportamento, anche se entrambi mi facevano un certo effetto.
Una volta che ero uscito con Andrea, dovevamo incontrare una coppia di ragazzi astrofili che avevamo contattato tramite gli annunci della rivista l'Astronomia, me lo ero trovato di fronte, in vestaglia e pigiama, con le grucce, sotto i portici della galleria colonna (allora si chiama così) che chiedeva spicci ai passanti, in evidente stato di confusione mentale.
Io avevo attraversato via del Corso senza nemmeno guardare se passavano le macchine pur di sottrarmi alla sua vista. E se mi riconosceva? Se parlava con me? Che mi avrebbe detto? E io cosa avrei dovuto fare? Chiamare qualcuno per riportarlo in ospedale? Chiamare mamma?
Fu un momento strano. Andrea preoccupato dalla mia reazione, i due ragazzi astrofili scomparsi e mai più raggiunti, il mio imbarazzo per aver visto papà in quelle condizioni ed essere fuggito.
Raccontai tutto ad Andrea che si comportò come un vero fidanzato, ascoltandomi in silenzio senza giudicare né me né mio padre.
Di tutte le volte che non abbiamo dormito insieme io e Andrea quella fu la più dolorosa. Quella sera avrei voluto addormentarmi tra le sue braccia e lasciarmi andare all'amore di chi non ti giudica.
Un'altra volta, durante uno degli incontri con papà, che avvenivano sempre in un luogo pubblico, una signora nera coi suoi due figli piccoli, attirata dal tono esaltato della voce con cui papà diceva di aver vinto un miliardo di lire alle scommesse di calcio (ma non si giocava tutto ai cavalli?) e che mi avrebbe regalato un telescopio potentissimo per l'osservazione delle stelle (e io che gli spiegavo che non era importante la potenza dell'ingrandimento quanto la sensibilità alla luce...) la signora lo guardava strabuzzando gli occhi e quando papà se ne accorse si sentì apostrofare da lui con un Signora che fa guarda i miei figli? Sono più belli dei suoi!!! mentre io e mamma sprofondavamo sotto il tavolo... Silvia c'era ma era troppo piccola...
L'imbarazzo che avrei provato se avessi incontrato papà all'improvviso non nasceva dal timore per le situazioni strane in cui mi avrebbe potuto coinvolgere. No.
Nasceva dal desiderio di accoglierlo a braccia aperte e dirgli non ti preoccupare, vieni qui, appoggia la tua testa sulla mia spalla.
Ecco di che imbarazzo si trattava.
Avrei avuto il fegato di dirglielo?
Avrei avuto la forza di fare da padre a mio padre?
Credo di sì.
Per quanto tempo?
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