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Del mio peggio n° 2




Anche io ho avuto un amico immaginario.
Ma non ero un bambino quando l'ho inventato. Non ero nemmeno un adolescente. Avevo vent'anni.

E questo amico immaginario era per uso e consumo di mia madre.
Si dà il caso che le avessi menzionato (costruzione inglese abbiate pazienza)  Stefano, questo mio amico gay - inesistente - che dicevo di aver iniziato a frequentare e col quale uscivo ogni tanto.

Se un giudice mi chiedesse perché mentì? non saprei dare una risposta.

Questa menzogna, che durò diversi mesi, fu un comportamento amorfo, il risultato di diverse proiezioni sovrapposte.
Da un lato era una prova generale del mio coming out.
Non si trattava di testare  la reazione di mia madre. Si trattava di testare la mia.
Io ho sempre saputo che mi piacciono i ragazzi, da quando andavo all'asilo.
Certo ci misi anni anche solo a sentire per la prima volta la parola frocio.

La sentii da questo ragazzone alto e biondo che era venuto a giocare in cortile con noi ragazzini e gli era scappato un dio frocio.
Gli avevo chiesto cosa volesse dire frocio senza malizia, come quando chiedi cosa significa serendipità.
Quel ragazzone, grande e grosso, un Thor nostrano, diventa rosso in viso e inizia balbettare imbarazzatissimo e non mi vuole proprio dire che significa quella parola tanto che dubito nemmeno lui sappia cosa significa.
Mi meraviglio del suo imbarazza ma non demordo, se non conosco il significato di una parola so che è un mio diritto venirlo a sapere.

Ne avrei scoperto il significato poco dopo, quando Pasolini venne ammazzato da ignoti e NON da Pelosi come ci hanno fatto credere.

Dall'altro quella menzogna era il segno di un disperato bisogno di avere amici gay.
I miei amici dell'epoca erano tutti etero.
Erano raffinati, carini, affettuosi, ma, sapete com'è, figa e calcio, calcio e figa. Una noia mortale.

Una sabato sera di fine 82 ero al mercatino del libro di via delle terme di Diocleziano, alla ricerca di qualche libro da comperare.
Ho sempre ritenuto la serendipità della bancarella una pratica piena di sorprese.
Mentre sono lì alla ricerca di un incontro con qualche libro che mi cambi la vita passano vicino a me due ragazzini coetanei, vestiti con dei pantaloni attillatissimi che mostravano i loro pacchi e i loro sederi. Indossano catenine, braccialetti, il kajal agli occhi, uno dei due ha una fascia legata in testa. No, non sono indiani, sono froci.
Si muovono dinoccolati, effemminati, parlano a voce alta,  riferendosi a se stessi al femminile.
Amò aspettame so inciampata! 
Ma te sei na cretina t'ho detto di metterti i tacchi una volta che eravamo arrivate. 
E  ridendo mi superano.
Erano sicuramente molto più felici di me.
Nessuno dice loro qualcosa. Per fortuna.
Ma io mi imbarazzo. Terribilmente.
Loro rappresentano il modello culturale di frocio che ha in mente anche mia madre, quello che da un lato lei teme io possa abbracciare, dall'altro quello verso il quale mi spinge quando io cerco di costruirmi una identità da ragazzo al quale piacciono i ragazzi non stereotipata, non effemminata, non de-virilizzata. Se vuoi fare il frocio la strada è quella cerca di gridarmi mia madre.
Chissà perché la strada che cerco per conto mio le pare un affronto.

Poco dopo mentre sono da Disco Boom, il negozio al Tritone che non esiste più da almeno vent'anni, alla radio passa You Might Need Somebody di Cindy Crawford.
La canzone mi investe come un tir a manetta. Un'epifania dolorosissima e struggente.
Anche io avevo bisogno di qualcuno.
Non solamente di un amore, ma anche di qualche amicizia.
Invece ero solo.
Ero solo perché non avevo un amore.
Ero solo perché, anche se ero gay, sentivo di non avere nulla in comune con quei due ragazzi che avevo visto passare vicino alle bancarelle.
E così come il mio amico Fabrizio, che era etero, ma non si riconosceva nello stereotipo del calcio e figa così io non mi riconoscevo in quello dei tacchi alti e della borsetta.

Ero solo perché non mi riconoscevo nella cultura mainstream.

Ero solo perché non mi riconoscevo nemmeno nella sottocultura gay.

Per questo ho fatto coming-out solamente a vent'anni.

A mia madre non ho mai detto Mamma sono gay. Ho detto mamma questo è Paolo,  il mio ragazzo.

Ho detto sono gay, ho iniziato a frequentare altri ragazzi gay, a frequentare locali gay, solamente quando sono riuscito a entrare dento un'etichetta che mi era sempre stata stretta, che continuava a starmi stretta, ma l'età e le esperienze che avevo avuto mi consentivano di entrarci senza aderire ciecamente a tutti i suoi sottintesi che anzi ero lì per combattere, per discutere, per mostrare al mondo che esistevano altri modi di essere gay.

Per cui, Stefano, il mio amico immaginario, non era un ragazzo fittizio pensato per mia madre, era il ragazzo che doveva indossare l'etichetta per me, per allargarla, ammorbidirla, darle un po' di sudore, di pelle, di fatica, prima che potessi indossarla io.
L'etichetta gay che per me era un'armatura medievale e Stefano doveva renderla una calzamaglia alla Diabolik, un costume che a pelle mi sta come cantava Renato.

Avevo detto a mamma di Stefano con leggerezza, come per la botta pelvica a Graziano, però avevo continuato a tenerlo in vita perché pensavo mi potesse tornare utile.
Durante quei mesi però temetti che questa bugia, io che non ne dicevo mai, non ho mai mentito, al massimo ho omesso, che questa bugia dicevo potesse essere il sintomo che qualche cosa nella mente mia non va come cantava Mina.

Poi, un pomeriggio che andai a trovare mamma in ospedale, subito dopo l'intervento al cuore, quando un'infezione da stafilococco aureo l'aveva tenuta degente molto più a lungo del previsto, in presenza di Stefano, il cugino di Lello e di suo fratello Fabrizio, non il mio amico del cuore, un altro, quando lo  presento a mia madre, lei, che era nel pieno del ruolo sono una donna malata, quando sente il nome Stefano, mi guarda e, sottovoce, improvvisamente guarita, almeno nello spirito, mi chiede, a checcha? con lo  stesso malcelato disprezzo della veggente di Ladri di biciclette quando Ricci le racconta che gli hanno rubato la bicicletta e lei ripete, a bicicletta?

Stefano, quello immaginario, morì in quel momento.
L'altro, quella accanto a me, per fortuna non si accorse di nulla.

Due mesi dopo conoscevo Marco e Luca.

Fare coming out fu anche un modo per cambiare scena e pubblico, lasciando i miei amici tutti calcio e figa per quelli nuovi tutti ...cazzo e disco.

Per un periodo frequentai entrambi i palchi ed entrambi i pubblici.

Al passaggio sopravvisse solamente Fabrizio.
Mi dispiacque per Fulvio al quale non ero riuscito a dire nulla di me e dirglielo così tanto tempo dopo quando lui mi considerava il suo migliore amico mi sembrava un tradimento che vigliaccamente preferii evitare. Meglio, se volevo dismettere quell'Alessandro purtroppo mi dovevo sbarazzare anche di Fulvio.

Era il 1985, quando una fortunata serie di eventi mi trasformerà completamente facendo della checchina amorfa dentro l'armadio che ero ancora, una checcona  garrula e nuda davanti al mondo che diventai nel giro di un anno.

Stefano lo frequentai poco e male. Un ragazzo silenzioso, remissivo, riccetto, sarebbe piaciuto tanto a Pier Paolo.
Una volta  io e Fabrizio lo incontriamo per strada e lui si unisce a noi. Di solito Stefano era sempre allegro e iperattivo, stavolta era silenzioso e stranamente serio. Quando gli chiediamo cos'abbia Stefano ci dice che anche lui ha avuto fatto qualcosa con un ragazzo. Dopo il mio coming out si sente autorizzato a raccontarcelo. Ci dice di come suo cugino, qualche anno prima, quando lui aveva 16 anni e il cugino una ventina, se lo sia scopato.
Stefano ci racconta tutto, il dolore di quel sesso insertivo, la paura, la sensazione di sporco dopo che il cugino gli è venuto dentro.
Ce lo racconta con meno spavento di come potrebbe raccontarlo una ragazza, ma con la stessa ineluttabilità.
Fabrizio gli chiede che se lo è vissuto.
Stefano gli risponde che non lo sa.
Ma che col cugino lo hanno fatto diverse volte. Forse mi è piaciuto dice, dignitosissimo.

Per il pratriarcato è sempre responsabilità della persona ricettiva, no?

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