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Qualcun altro pensa che sono intelligente e sono in gamba.


Non ricordo più come la discussione iniziò.
Probabilmente avevo chiesto a mia madre di fare qualcosa che lei non voleva io facessi.
Una visita a un museo, una mostra, una gita fuori Roma. Chissà.
Ricordo solamente che lei si era arrabbiata con me, anzi  più che arrabbiata, come se stessi millantando chissà quali capacità che non avevo. Era proprio la mia incapacità che mi stava gridando contro.
Sei un borzo! Non sei capace di fare niente da solo! Non sai orientarti! Non saresti  nemmeno capace di prendere l'autobus per venire  in ufficio da me!  
Se non fosse per me che ti guido ogni volta, ti perderesti.

Ho sempre pensato che mia madre mi dicesse queste cose per un eccesso di protezione, perché temeva che potesse succedermi qualcosa, una paura iperprotettiva che la rendeva soffocante e sovrareattiva.

Invece credo che pensasse davvero le cose che mi diceva.
E io credevo di non essere all'altezza, pensavo di averla delusa come figlio e come maschio. Se lei irrideva la mia maschilità chiamandomi la biondina era perché io mancavo di maschilità davvero.

Quel che non capivo allora è che in realtà mia madre vedeva il me proprio il maschio e temeva non solo  la messa in discussione della sua autorità  ma la prepotenza dello scalzamento di ruolo e di potere.
In qualche modo i miei desideri, per quanto naïf e infantili, le dovevano apparire delle velleità insopportabili, un oltraggio di lesa maestà, un'atto presuntuoso  di ribellione alla sua autorità.

Una forma di ribellione così temibile che mia madre doveva ribadire che quella ribellione  non avrebbe mai avuto successo, che io non sarei mai stato in grado di sgominarla, e per questo mi dava del borzo.

Come mia sorella che lasciò uno dei suoi fidanzati perché lei non poteva vivere con un uomo che guadagnava meno di lei, mia madre, sentendosi minacciata dalla mia maschilità, non potendo disinnescare quella cercava di disinnescare la persona, poco importa fosse suo figlio preadolescente.

Io dovevo essere sgominato perché rappresentavo un pericolo e quando facevo qualcosa che ai suoi occhi era strana quella stranezza andava stroncata sul nascere.

Lo stesso meccanismo deve aver agito con mia sorella quando le ho detto dei complimenti dell'Istituto Superiore della Sanità.
Non è invidia. Non è competizione. Non è gelosia. Non è nemmeno malasopportazione del vanto altrui.
E' fastidio. Fastidio per qualcosa che non capisci, che non conosci, che non approvi, che non ti interessa, con la quale non vorresti perdere tempo e invece devi tuo malgrado confrontarti.

Un gorgo arazionale di fastidio quando ti trovi di fronte la nullità che solleva la testa senza titolo.
Per mia madre, e anche per mia sorella, mentre loro in quanto donne dovevano sudarsi le più elementari conquiste sociali, io, in quanto maschio, potevo gingillarmi con le cose più stupide e prive di importanza che acquisivano prestigio grazie al privilegio maschile.

il risultato fu che avendo 10 anni, quando mamma mi gridò quello che mi gridava, sotto sotto pensavo che avesse ragione.
Io non ero niente e la mia curiosità, la mia voglia di essere, erano il capriccio di un essere velleitario e inferiore.

Non le dissi nulla, spaurito dai suoi nervi (zia Clara e nonna dicevano che era isterica), timoroso che potesse sentirsi male (quel maledetto cuore malato), annichilito come sempre dalla totipotenza del resto del mondo che si opponeva con tutte le sue possibilità alla mia borzaggine rimasi lì immobile, desideroso solamente di scomparire.

Qualche giorno dopo la noia mi spinse a un gesto inconsulto.
Invece di andare a scuola da solo, come già facevo da un paio d'anni (nonna mi aveva insegnato a rivolgermi al mio angelo custode quando avevo paura ad attraversare la strada) presi la strada che portava alla fermata degli autobus.
Salii sul 44 e scesi Villa Sciarra.

Dalla fermata dell'autobus all'ingresso della villa bisognava passare sotto un'arcata romana, senza marciapiede, sotto la quale passavano anche le automobili.
La superai conscio del rischio delle macchine che mi venivano dietro, io che mi sentivo così piccolo.

Quando Silvia ancora non era nata, e con papà e mamma eravamo andati alla tenuta di mio zio Salvatore, io ero nell'immenso piazzale antistante la villa quando due Tir si avvicinarono minacciosi. Io mi sentivo così piccolo che ebbi paura i Tir mi potessero travolgere perché, date le mie dimensioni ridotte, non mi avrebbero visto.
Cominciai a correre per trovare un riparo ma ero in mezzo al nulla e mi prese la disperazione che non mi rimaneva che farmi travolgere.
Iniziai a urlare e piangere, zio accorso sul posto  chiese il perché del mio pianto e mamma gli rispose, metà imbarazzata metà accondiscendente con un bambino naïf,  il bambino ha paura di essere travolto. Il bambino. Non avevo una personalità mia. E invece di rassicurami o di spiegarmi che non correvo pericolo e perché mi trattò con la stessa sufficienza di una paura irrazionale come la paura  del buio o dei mostri sotto al letto. Come se la mia paura, per quanto improbabile, non fosse concreta ma inventata.

Me ne dolsi da morire.  Ancora oggi cerco negli altri una conferma che i miei dolori e le mie paure siano legittime e non destate da una mia estravaganza.

Arrivo a villa Sciarra, nella quale ero stato tante volte, di pomeriggio, sempre con mamma però.

Era mattina presto, non c'erano bambini e il chiosco dei giocattoli era ancora chiuso.
Mi sedetti sulla panchina vicino la fontana dove giocavo con le barche giocattolo, contento di essere riuscito a fare quello che mia madre mi aveva garantito non fossi in grado di fare.
Poi, dopo qualche attimo di entusiasmo, fui colto di nuovo dalla stessa noia che mi aveva spinto a saltare la scuola.
Che ci facevo da solo a villa Sciarra ?

Capii che dovevo concludere l'opera e raggiungere l'ufficio di mamma, da solo, per farle una sorpresa.

Presi di nuovo il 44 fino a piazza Sonnino da dove partiva il 60 che mi portava in ufficio.

Nessuno diceva niente nel vedere questo bambino imbambolato e timido da solo sull'autobus.
Poi, poco prima di scendere a piazza della Croce Rossa, venni avvicinato da un uomo che mi chiamò per nome.
Era il cavalier Petri, un ex funzionario del ministero, in pensione già da diversi anni, che continuava a venire a lavoro occupandosi di vari uffici, aiutando ex colleghe e colleghi con la burocrazia, i conti, le dichiarazioni dei redditi. A titolo gratuito. Tanto per rimanere con la mente occupata, per non morire in casa, diceva.
Il cavalier Petri sembrava contento di vedermi, non sorpreso e nemmeno arrabbiato.
Mi chiese dove stavo andando.
Io gli dissi in due parole, con un filo di voce e tutto di un fiato, che volevo fare una sorpresa a mamma e dimostrarle che ero capace di andare da solo in ufficio da lei anche se lei mi aveva detto che non ne ero capace.
Solo che non mi ricordo bene come arrivare in ufficio da lei conclusi
In realtà credevo di ricordare la strada, il mio vero dubbio era come superare i controlli di sicurezza del ministero da solo.
Se avessi chiamato mamma sarebbe finita la sorpresa. Io invece volevo arrivare davanti nella sua stanza d'ufficio e farle una sorpresa.
Il cavaliere si offrì di accompagnarmi da mamma e dentro di me tirai un sospiro di sollievo.
Ma proprio quando avevo trovato una soluzione al problema mi scoprii deluso: l'aiuto del cavaliere toglieva allure alla mia capacità di muovermi da solo e dimostrare a mamma quanto non fossi borzo.
Mi sovrastò di nuovo quel senso di noia che era stato il motore di tutti quei miei spostamenti. Poi  eravamo già oltre i controlli di sicurezza, al terzo piano,  nel corridoio della stanza d'ufficio di mamma, che, fuori stanza, appena mi vede, scoppia a piangere.

Io mi mortifico.
Non è servito a niente allora.

Il cavaliere spezza  una lancia in mio favore e le dice non pianga signora Mirella, si compiaccia piuttosto con suo figlio che ho incontrato sull'autobus. E' stato bravissimo a trovare la strada per venirla a visitare da solo. 

Poi sono tra le braccia di mia madre come se mi avesse riportato la polizia dopo due giorni che mancavo.
Mi abbraccia e mi bacia e mi dice mi hai fatto prendere uno spavento.

Mi ha già rubato la scena.

Poi sono in stanza, e mamma spiega che sono arrivato là da solo.

C'è questo collega di stanza, che si chiama Volponi, che mi ha sempre trattato con sufficienza come fossi il bambino scemo da assecondare, che mi dice oooh che bravooo col tono con cui si parla ai bambini piccoli, che io ho sempre odiato.
Sono bambino mica scemo parlami come parli con gli altri cribbio!  

Qualche giorno dopo, mentre mamma pranza e io e Silvia, che pranziamo prima, assistiamo al suo pasto come cani che assistono al lauto pranzo dei loro padroni (tanto che nonna ci intimava di non fare i tira sciato, i tira fiato),  mamma ci chiede se vogliamo assaggiare e noi vorremmo ma nonna ci guarda storto, mamma, divertita, disinvolta e soddisfatta, mi dice, col sorriso sulle labbra,  che il cavaliere l'aveva rimproverata per avermi detto certe cose perché  io sono intelligente e non stupido come mi aveva detto lei.

Io avrei voluto tanto che mia madre fosse fiero di me, e che fosse stata lei a considerarmi intelligente e in gamba, mi dovetti accontentare invece che fosse fiera che lo pensasse qualcun altro.

La storia della mia vita.


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