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Libero di andare. E sbagliare. Da solo.


L'autunno dopo che mamma è morta, oltre al lavoro, l'ho passato in casa, a leggere, scrivere, e a guardare la tv in bianco e nero.
La sera, dopo cena, mi veniva una stanchezza inarrestabile, un languore incontenibile, al quale sapevo sottrarmi solamente mettendomi a letto e guardare in tv cose che  prima mai mi sarei immaginato di guardare.
Originali televisivi, telegiornali, talk show, dalla tv in bianco e nero che avevamo avuto per tutta l'infanzia.

Ogni  mattina mi svegliavo con un senso di mancanza. Una mancanza che notavo per il sollievo che quella mancanza mi dava, come mancasse all'appello un dolore cronico.

Per qualche infinito  secondo cercavo di ricordarmi cosa mancasse senza riuscirci,  come una cosa che hai sulla punta della lingua, ma ancora ti sfugge. Poi, potente come un big bang, mi ricordavo: mamma è morta.

Che mamma fosse morta era prima di tutto una sconfitta per lei.

Quell'operazione al cuore improcrastinabile si era rivelata fatale in soli cinque anni, tanto era trascorso dall'intervento chirurgico alla sua morte.

Era stato un percorso in salita, immediatamente, già durante l'operazione, quando i chirurgi si erano trovati davanti una situazione di danno maggiore e avevano dovuto trovare tessuti suppletivi per riparare la mitrale che era praticamente distrutta. Avevano optato per le vene delle gambe che le avrebbero lasciato delle  cicatrici. Vada al mare signora il sole farà bene alle ferite.

Dopo era stata tutta una catena di eventi invadenti.
Prima l'infezione da stafilococco aureo sull'incisione dello sterno, poi la ferita che non si voleva emarginare. Infine il buco che era rimasto sul petto, nello sterno, a causa di un errore nella medicazione.
Un buco che mamma avrebbe coperto con delle collane etno.

Mamma era cambiata molto dopo la convalescenza.
A cominciare da quel buco al petto che la faceva sentire non desiderabile, non piacente lei che era stata una bella donna e aveva avuto anche dei corteggiatori più giovani di lei come un certo suo collega d'ufficio appena assunto, sui primi trenta, se ce li aveva, mamma ne aveva 40 col quale aveva avuto un flirt (prima che quello si stancasse che mamma non volesse uscire le sere con lui...) che la faceva leggere molto (tutto Hemingway, un po' di Cassola, io che non l'avevo mai vista con un libro in mano ne ero felice).
Invece dopo Luciano, col quale si era lasciata poco prima dell'intervento al cuore,  mamma non aveva avuto più nessuno e fu così fino alla morte.

In uno dei rari momenti di lucidità nella fase finale della sua malattia lo disse pure, con sconforto e nostro enorme sgomento,  lei non si era divertita eppure questo non era servito.

A che era servito operarsi se l'operazione le aveva tolto la sfera sessuale e quella affettiva?

Obnubilati da tre mesi di ospedale io e mia sorella non avevamo capito il senso del suo discorso e non riuscimmo a sottrarci dal commisurarlo al fatto che chi prende l'Hiv tramite rapporti sessuali lo ha fatto divertendosi. 
Per me era un delirio di pregiudizi dai quali avevo subito preso le distanze ricordo che per mia sorella quel discorso un certo senso logico invece ce l'aveva (arrivò a chiedermi se mamma ci avesse nascosto qualcosa...) la cosa ancor m'offende.

Mi chiedo quanto la mestizia che prese mamma dopo l'operazione dipendesse dalle sue condizioni fisiche ed estetiche e quanto dall'insorgere della leucoencefalopatia che l'avrebbe sgominata nell'agosto del 1990.

Se per mamma la morte è stata una sconfitta per me è stata assolutamente una liberazione.

Liberazione da una malattia che non le consentiva di essere presente a se stessa, per cui vedeva me e mia sorella senza mai riuscirci a collegare alla memoria che aveva di noi che, pure, eravamo sempre nelle sue parole, assieme al nostro gatto Buio.

Liberazione da una malattia che ne aveva cancellato l'essenza.

Per me mamma è morta quel giorno di Agosto che l'abbiamo ricoverata quando, dopo una telefonata con una collega d'ufficio, posata la cornetta, vede me e mia sorella e ci chiede, la testa storia come Bette Davis in "Che fine ha fatto baby Jane", Chi siete voi? e io e mia sorella che annaspiamo mentre il pavimento è diventato più viscoso delle sabbie mobili.

Liberazione da quell'alieno che si era impossessato della sua mente e l'aveva resa un ectoplasma vacuo e vuoto, mentre il corpo continuava a necessitare cure: la crema antiarrossamento che le spalmavo sotto i seni generosi, le emorroidi che si facevano sentire quando soffriva di stitichezza, quei normalissimi umani dettagli del corpo organico cui di solito nei film non si fa menzione.

La liberazione era tanto per lei quanto per noi che saremmo dovuti rimanere schiavi di un golem imbarazzante e osceno.

Così quando Alessandro, non io, l'altro frocio del quartiere, si compiacque credendola a casa  quando si sentì rispondere che mamma non era più in ospedale,  mi aveva rimandato a un'immagine che invece di riempirmi di nostalgia (malata ma viva) mi aveva fatto orrore.

Meglio morta che zombie.

Improvvisamente di mamma, di tua madre, di quella persona che ti ha dato la vita dalla cui fica sei uscito e alla cui fica hai commisurato per primo tutto il tuo mondo erano rimasti solamente piccoli osceni dettagli: la radiolina che usava in ufficio per sentire il gr, il tagliacarte che ancora conservo, i vestiti che mia sorella buttò quasi un anno dopo.

Allora è vero che lo zombie trova sempre un modo per sopravvivere.

Poi c'era un'altra di liberazione.

La mia.

Morta mamma non c'era più nessuna al mondo cui mi sentivo in dovere di rendere conto. Non mia sorella quando mi imponeva la sua omofobia come fosse stato un problema mio. Non le zie che non frequentavo mai. E nessun altra persona.

Ancor oggi quando qualcuna, qualcuno, prova a dirmi come mi dovrei comportare,  sopprimendo un'ancestrale istinto omicida, commento che ci sono solo due persone che possono dirmi come mi devo comportare Dea e mia madre. Dea non esiste e mia madre è morta, per cui...

La mia libertà non era una libertà da mamma beninteso.

Non andavo in giro a esultare per mammamorta.

Anche se, morta mamma, spariva una persona che aveva saputo davvero ferirmi, morta lei ero finalmente on my own. Non potevo più incolpare Lei se non andavo alle conferenze del CIDI.

Non ho mai pensato a me stesso come a un orfano, anche se lo sono, perché essere orfani implica  una mancanza,  una menomazione.

Ma a me non mancava nulla. Ho sempre pensato alla morte di mia madre come all'opportunità di ripartire da zero.

Comme la môme Piaf je repars à zéro cantava Nougaro.
In realtà sotto tutte queste considerazioni c'era una consapevolezza più profonda che allora non mi aveva nemmeno sfiorato e che solamente ora mi rendo conto di quanta energia mi dava, di quanto fosse potente.

Nonostante mia madre mi avesse ferito nelle maniere le più diverse, nonostante per lei fossi un borzo, incapace di andarla a trovare in ufficio, non degno di partecipare alle conferenze del CIDI, nonostante la gratuita cattiveria di far finta di dover difendere mia sorella dalla mia eventuale potenzialità di untore dell'hiv per piegarmi al suo modo di vedere le cose, io non portavo nessun rancore per mia madre.

Non ero contento fosse morta.

Non avevo nessun livore.

Se credevo e credo ancora, alla bellezza della Nemesi che l'ha fatta morire di aids, è la bellezza della Giustizia non della Vendetta.
Una Giustizia dalla quale nessuna, nessuno, è esente, nemmeno le persone che amiamo.

In fondo la Nemesi mi offriva una spiegazione per la sua morte altrimenti insopportabile.

Non incomprensibile perché non mi sono mai chiesto il perché della morte di mamma.
Non c'è perché.
Shit happens. 
Insopportabile perché ti manca la persona non perché non sai fartene una ragione.

Se disprezzavo l'irrazionale odio che mia sorella aveva nei confronti del mondo reo di averle portato via la madre era perché quest'odio non nasceva dalla mancanza della persona amata ma dalla lesa maestà di un affronto: tu mondo come osi a portarmi via mia madre?

Posso dire che si tratta di un pensiero piccolo, angusto, soffocante,  senza apparire stronzo?

Anche il mio odiare il mondo dopo la morte di Frances era un sentimento totalmente differente. Io non odiavo il mondo perché mi aveva portato via Frances.

Io odiavo il mondo senza Frances. Lo odio tutt'ora.

Mi sarebbe forse stato più facile sopportare la mancanza di mamma se avessi reso la sua morte uno strumento di risarcimento.

Non incaponendomi di rabbia per la sua dipartita come fece mia sorella mi sono potuto permettere di non odiarla, di non pensare a lei come una persona per me pericolosa, o cattiva o nefasta, la cui morte mi aveva liberato.

Sicuramente non ho avuto la madre migliore del mondo ma questo non mi dà diritto a avere un trattamento speciale a ricevere un trattamento di favore, e considerare la morte un risarcimento.

La libertà che sentivo dopo la morte di mamma era la libertà dal rancore, la libertà di poterla amare nonostante tutto, la libertà di poterla sentire accanto me, sempre, ancora adesso,  proprio come con l'angelo custode che mia nonna mi aveva abituato a parlare con..., lo so è sintassi inglese, vi ci dovete abituare.

Ero libero dalle sue colpe da quelle responsabilità che aveva avuto e che erano state azzerate ora che era morta.
Non la avevo perdonata. 
L'avevo lasciata andare, solo così potevo ancora averla, accanto a me, come quando mi rivolgo a lei quando mi immagino come avrebbe reagito o come l'avrebbe pensata su qualcosa che mi sta capitando un  po' come fa Ricker quando crede Picard morto e chiede alla sua sedia vuota lei cosa farebbe?

Ora che mamma non c'era potevo fare a meno di lei senza incazzarmi per il dolore che avrei provato se lo avessi fatto in vita.
Anche.

Libero.

Di andare. E sbagliare. Da solo.


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