Cenerentola, Zang Tuumb Tumb
Mi sono iscritto al laboratorio teatrale per raccogliere i cocci del mio cuore e per stimidirmi (parole mie).
Nessuno e nessuna si meravigliò della mia decisione.
Della decisione di un timido che si vergognava della sua stessa voce che si stava rimodulando ai toni bassi della pubertà e si metteva fare teatro.
Sembrava una cosa normale.
Non al sottoscritto che avrebbe voluto un pubblico che gli dicesse, mi dicesse, bravoooo.
Come non vedere l'attore che già c'era in me?
Non mi dispiacque rinunciare all'astrofilia.
Continuai a leggere libri divulgativi ma smisi l'osservazione del cielo. Senza Andrea non mi sembrava avesse più senso...
Da allora ogni volta che mi capita di osservare la volta celeste e scopro di sapermi ancora un po' orientare tra le costellazioni mi riaffiora il ricordo del tempo che fu e di un Alessandro che avrebbe potuto essere.
E ripenso ad Andrea.
Il mio lavoro al laboratorio teatrale fu lento e, almeno all'inizio, con scarsi risultati.
Essendo un laboratorio scolastico lo scopo non era quello di studiare la dizione e la recitazione ma di esprimersi tramite il teatro.
Una espressione che travalicava la parola e si imponeva col fisico. Una fisicità che a me mancava.
Non potevo contare sull'intelligenza atletica del mio corpo col quale ero privo di ogni minima confidenza. Io non conoscevo il mio corpo e lui non conosceva me.
Non ne avevo mai sperimentato le sue potenzialità.
Non sapevo correre, saltare, arrampicarmi, non sapevo andare in bici, sui pattini, nemmeno potevo dire di saper nuotare, galleggiavo, come gli stronzi.
Erano tutte cose che un corpo adolescenziale sa fare per vocazione innata e a me erano del tutto aliene.
Io portavo il mio corpo senza averlo mai messo alla prova, se non sessualmente, ma quell'esperienza non ti serve quando devi giocare a pallone o scavalcare un muro.
Pur non amando le sfide, meno che mai quelle atletiche, le compagne e i compagni di laboratorio mi aiutarono a scoprirmi, a mettermi in gioco, mi fecero capire che esistevo e potevo essere preso in considerazione che, insomma, non ero solo l'esperimento masturbatorio di qualcuno, ma avevo sangue, carne, pelle e peli e sentimenti anche.
Una volta dovevamo fare un esercizio di improvvisazione fisica mentre il co-conduttore del laboratorio suonava una musica al pianoforte.
Io che non avevo mai nemmeno davvero ballato mi irrigidii dicendo non lo so fare che per me era già una conquista visto che di solito non sapevo esprimere verbalmente il mio imbarazzo, rimanendo immobile e muto.
Lo so. Alessandro Paesano che rimane senza parole sembra uscito da un universo parallelo, tipo la Kelvin timeline di Star Trek.
Invece no, ero io, speechless.
A volte lo sono ancora oggi. Credetemi sulla parola.
Insomma sto lì con Roberto che bonariamente insiste per farmi almeno provare a fare l'esercizio mentre io, il culo caparbiamente sulla sedia, dico di non riuscire.
Allora Alessandra, una ragazza del laboratorio, più per sottrarmi all'insistenza che per togliermi dall'imbarazzo mi dice Guarda ti conduco io. Ripeti quello che faccio. Poi quando ti senti pronto ti lascio solo.
Ed eccomi lì, incredulo che un'altra persona abbia tanta pazienza con me e che mi accetti per quello che sono, cioè un handicappato dell'atletica, o come diceva mia madre, un borzo.
Non so da dove avrà mai tirato fuori quella parola (dialetto? invenzione autonoma?) ma vi assicuro che il suo significato era altrettanto crudele della parola incapace.
In piedi, le mani in quelle di Alessandra, la musica che suona decisa, Ale mi fa stare con le braccia alzate e mi fa girare intorno all'aula, tranquillizzandomi con la voce (segui me, non avere paura) e con il corpo che esegue movimenti, lenti, armoniosi, facili da seguire.
Io mi tranquillizzo, non mi preoccupo più di essere borzo, tanto mi sembra che mi accettino comunque.
La musica si fa frenetica e quando meno me lo aspetto Alessandra mi lascia da solo.
Io sono del tutto dentro il movimento e niente affatto presente a me stesso.
Ricordo solo che ero felice di starmi muovendo, libero dal peso di un corpo sconosciuto, libero di superare le mie remore che di solito in casi di performance fisica mi paralizzavano.
Non so cosa sto facendo, però mi muovo.
Sono come in trance. O, meglio, del tutto affrancato dall'obbligo che la mia mente coordini, ordini, controlli e dirima il corpo. Ora è lui a condurre il gioco senza che la mia mente sia in grado di fare alcunché. Privo di briglie il mio corpo si ringalluzzisce e si muove per conto suo. Non so cosa avrei dato per vedermi da fuori.
Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella; ma almeno conoscerla.Non sono cosciente dei movimenti che faccio.
Saranno i miei compagni e le mie compagne di laboratorio a raccontarmi, dopo, che mi muovevo come un uccello che cercava di spiccare il volo.
Metafora fin troppo calzante...
Nonostante questi progressi il primo spettacolo autoprodotto mi vide in un ruolo secondario. La mia inesistente capacità atletica mi fece defilare e Roberto assecondò la mia idiosincrasia.
Fu l'anno successivo che invece divenni improvvisamente bravo.
Stavamo lavorando a un testo che voleva affrontare il concetto di guerra dal futurismo alla guerriglia agli anni di piombo. Come scheletro narrativo avevamo scelto la Cenerentola disneiana. Roberto aveva il disco con il doppiaggio italiano (quello originale degli anni 50) sul quale dovevamo andare in playback.
Io che cantavo sopra le canzoni di Mina avevo un certo orecchio per la musica.
Luciano, il compagno di mia madre, cantante lirico, si divertiva a mettere alla prova il mio senso del tempo musicale: armeggiando col volume del mangiadischi, lo toglieva all'improvviso mentre io continuavo a cantare, a cappella, e, quando ripristinava l'audio, io conoscendo esattamente l'andamento del pezzo, assoli orchestrali compresi, non rientravo mai in anticipo o in ritardo, ma sempre sul tempo.
Non avevo mai fatto un vero lip sinc però quando cercavo di cantare in perfetto sincrono sull'originale ci riuscivo.
Così andare in playback sulle parole del re, il padre di Cenerentola, mi venne naturale e bene.
Improvvisamente da ultimo arrivato, un po' pippa, ero uno dei più bravi del laboratorio. Ero "bravo" non perché mi divertivo a fare quel che facevo, ero "bravo" perché sapevo quel che facevo.
Lo spettacolo, che si chiamava Cenerentola Zang Tuumb Tumb, era molto bello da vedere, con tante scene di teatro fisico (nelle quali mi cimentavo anche io) e quasi nulla di parola (oltre al playback sull'audio della fiaba di Disney) e piacque molto al pubblico, anche quello infido e spietato di studenti che è pronto a sfotterti per un nonnulla.
Facemmo 6 repliche e lo portammo anche in una scuola vicino al nostro liceo e, l'anno dopo, anche a un festival a premi di laboratori teatrali di Roma e provincia, dove non vincemmo perché lo spettacolo basato su un testo autoprodotto era considerato inferiore a chi portava in scena qualche classico della letteratura teatrale. Retaggi crociani.
Il personaggio del Re riscuoteva sempre molto successo, anche per il mio physique du rôle: sovrappeso e ricciocrinuto ero perfetto nel ruolo di un re un po' incazzoso che se la prendeva col viceré.
Servile e intimorito da me il viceré era interpretato da un ragazzo etero della mia scuola con il quale facevo dell'ottimo sesso, ogni volta che potevamo, ogni volta che avevamo casa mia o casa sua libera, per tutti gli anni di liceo e anche tutti quelli dell'università.
Non ho mai avuto difficoltà ad andare a letto coi ragazzi etero. E' coi ragazzi gay che ho avuto sempre difficoltà...
Conservo ancora il costume di scena: un paio di jeans strappati e una t-shirt dilacerata con delle macchie di sangue.
Mia madre guardava con diffidenza a questo laboratorio teatrale. Un po' perché temeva influisse sul mio rendimento scolastico (che aveva altissimi e bassissimi) e un po' perché tutta quell'arte aggiungeva estravaganza a un figlio già fin troppo sopra le righe.
Nonostante mia madre sapesse delle repliche (certi giorni anche due di fila) non venne mai a vedermi.
Forse io non le dissi mamma ci terrei che venissi a vedermi, ma quale figlio deve dire questa ovvietà alla propria madre?
Non è forse naturale per una madre vedere ogni singola recita del proprio figlio?
Chissà, magari non quelle del liceo...
In realtà mamma, eventually, venne a vedere lo spettacolo.
In occasione della ripresa dello spettacolo per il festival di laboratori teatrali, facemmo un paio di repliche anche al Liceo. Per le repliche a scuola (ma non al festival) nello spettacolo recitò anche mia sorella, che interpretava una delle due sorellastre di Cenerentola.
Nonostante non avesse mai recitato prima il ruolo le riusciva bene. Mia sorella aveva una certa intelligenza scenica e sapeva rendere con precisione ed efficacia il linguaggio del corpo, inzitellito e stronzo, della sorellastra cozza.
Non gliel'ho mai detto ma ero fiero di lei.
E' in quell'occasione che mia madre venne a vederci.
Cioè mamma venne a vedere mia sorella e solo par hasard anche me...
D'altronde perché esporsi al ludibrio pubblico di un figlio borzo?
Ripeto, glielo avessi chiesto magari sarebbe anche venuta a vedermi.
Non lo saprò mai.
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